Fuksas: «Da giovane contestatore fui ricevuto da Moro. La rivalità con Piano? Siamo come Coppi e Bartali»

Fuksas: «Da giovane contestatore fui ricevuto da Moro. La rivalità con Piano? Siamo come Coppi e Bartali»

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di Paolo Conti

L’architetto: «Non parlo male di Roma, in questa città chi “se la tira” è cretino». «Su poliziotti e studenti Pasolini sbagliò analisi, io e lui giocammo a calcetto insieme»

Il tavolo di lavoro romano di Massimiliano Fuksas è nel cuore di una fabbrica di architettura che ormai appare, nelle firme dei concorsi internazionali, solo con quel cognome di origine lituana, «Fuksas», senza più la parola «studio». La luce naturale irrompe nello spazio del palazzo cinquecentesco a san Paolo alla Regola.

C’è una foto iconica della sua vita. 1 marzo 1968, scontri a Valle Giulia alla facoltà di Architettura a Roma, lei a braccetto con Oreste Scalzone e Sergio Petruccioli. Ai tempi avrebbe mai creduto a un risultato elettorale come questo del 2022?

«No, ovviamente. Ma la penso come Longanesi, in Italia la rivoluzione è impossibile perché ci conosciamo tutti. Meloni post-fascista? Ma su… C’è stato un voto. Punto. Chi ha parlato di paura ha solo perso voti, la sinistra è polverizzata».

Lei era accanto a Scalzone, futuro Potere Operaio. Ha mai pensato che la sua vita avrebbe potuto prendere una strada diversa, pericolosa? «No. In quel periodo guardavamo tutto ciò che accadeva intorno a noi. Ma io amavo il grande movimento, il sogno era procedere verso il futuro su una marcia di Šostakóvič, non ho mai amato i gruppetti. Detesto la violenza, un uomo ammazzato mi fa orrore. Da una sofferenza non può derivare una gioia».

Quel giorno a Roma fu violento: scontri con la polizia, 148 feriti, 200 denunce. Tutto per tentare di rioccupare Architettura appena sgomberata.

«Volevamo riprenderci la nostra università, eravamo convinti che fosse l’inizio di una nuova era. Noi ragazzi viaggiavamo, io in autostop arrivai a Capo Nord senza una lira in tasca. Leggevamo letteratura straniera, eravamo diversissimi dai nostri genitori cosiddetti borghesi…. Dopo gli scontri ci ritrovammo davanti a palazzo Chigi. Incontrammo Marisa Rodano, poi Luciano Barca del Pci. Non l’ho mai raccontato ma Barca organizzò un incontro con Aldo Moro, ai tempi presidente del Consiglio. Con un gruppetto andammo a palazzo Chigi, un po’ arrogantelli… lui voleva capire cosa stesse accadendo. Ci ascoltò, disse poche parole serie e sagge. L’atteggiamento della polizia poi cambiò, e penso che quell’incontro ebbe il suo peso».

Pier Paolo Pasolini, è notissimo, si schierò con i poliziotti e contro di voi.

«Sbagliò l’analisi. Noi, l’ho detto, eravamo diversissimi dai nostri genitori. Molti di quei poliziotti erano legati al mondo del sottogoverno della Dc e da una stessa famiglia poteva uscire un poliziotto di destra o un operaio di sinistra. Con Pasolini ho giocato a calcetto a Monteverde Nuovo: lui all’ala, io con il 10 sulla maglia. Lui molto forte, io sempre un po’ regista. Ma basta col passato, parliamo di oggi…».

A cosa serve la buona architettura?

«A far vivere bene, a far incontrare le persone, a ridisegnare i loro rapporti. Da anni la crisi dei partiti e dei sindacati è evidente. Una rinascita della politica può avvenire solo dal basso, dalle città, dai territori. Bisogna guardare a sindaci come Beppe Sala a Milano, Dario Nardella a Firenze, Matteo Ricci a Pesaro, a presidenti di Regione come Massimiliano Fedriga in Friuli o Luca Zaia in Veneto».

Vogliamo parlare male di Roma oggi? Lo fanno tutti…

«No, io non parlo male di Roma soprattutto quando sono all’estero. Roma mal governata? Lo era anche nel Medioevo, nel ‘700, o anni fa. Le manca una classe dirigente e un ceto politico. Ha mille difficoltà: e magari anch’io ne faccio parte. Parlare male di Roma è inutile, banale».

Lei ha scelto di nuovo Roma dopo tanti anni passati a Parigi.

«Dopo la vittoria di Mitterrand nel 1981 venni chiamato a lavorare lì. La Francia, grazie a Jack Lang, scelse la strada che l’Italia non ha mai imboccato: convocare giovani e giovanissimi talenti per guardare al futuro, per progettarlo. Poi, alla fine degli anni ’90, decisi di tornare qui a Roma».

Perché, ripensandoci?

«Per porre fine al mio nomadismo. Un nonno ebreo lituano ma cittadino russo, la mia nascita in Lituania, le fughe della famiglia nel cuore dell’Europa, la mia crescita a Roma ma tanti spostamenti in Austria e in Germania con la nonna paterna. Volevo radicarmi, essere ciò che sono, un romano orgoglioso di esserlo. Da qui nasce la Nuvola all’Eur. Dovevo costruire nella mia città: lasciandomi alle spalle la geometria euclidea, mettendo a frutto gli studi sui frattali e la teoria del caos di Edward Norton Lorenz».

C’è un gioco a Roma sulla rivalità Nuvola di Fuksas- Auditorium di Renzo Piano…

«Troppo provinciale ricondurre tutto a due persone. Sembra la sfida Bartali-Coppi dove non si sa bene chi passò la borraccia a chi. La verità è che la competizione aiuta a imparare da altri ciò che tu non hai pensato».

Il marchio Fuksas significa anche Doriana Fuksas, sua moglie. Quanto c’è di lei nei progetti?

«Moltissimo, da anni. Lei mi ha vietato di calcolare da quanto dura la nostra storia ma si misura in decenni».

Confessi qualcosa su di lei…

«Doriana mi ha regalato il coraggio che non avevo. Nasco timidissimo, abituato alla difensiva, direi pauroso. Lei mi ha cambiato, mi ha dato forza. Contesta ancora una mia certa tendenza alla lamentazione, che lei attribuisce alle mie radici ebraiche. Siamo legatissimi».

Cosa è Roma, in un episodio?

«Nel periodo in cui non si riusciva a chiudere il cantiere della Nuvola, un giorno mi imbatto in un camioncino della Nettezza urbana che si blocca davanti a me. Si sporge l’autista, mi guarda e grida: “Architè, ma quanno la finimo ‘sta Nuvola?” Lui partecipava al dibattito della città sul progetto! Si fermò, mi offrì un caffè. Roma accoglie tutto e tutti, da millenni, dai principi ai delinquenti. Va rispettata per questa Storia immensa. Chiunque si senta importante a Roma, chiunque “se la tiri” è un cretino. E finisce ridicolizzato, a terra».

Lei adora la cucina romana e detesta gli chef stellati. Perché?

«Perché le trattorie romane, le pochissime rimaste, sono luoghi di verità, di gusto, di uguaglianza sociale, di radici nei sapori. Un giorno, invitato in uno di quei templi Michelin, mi hanno portato la carta delle acque. All’inizio ho chiesto, scherzando, un’acqua barricata annata 1972. Poi ho imposto una brocca riempita dal rubinetto. Siamo seri, no?».

30 settembre 2022 (modifica il 30 settembre 2022 | 23:36)

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, 2022-10-01 05:20:00, Massimiliano Fuksas: non parlo maledi Roma, in questa città chi «se la tira» è cretino ,

Pietro Guerra

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