La pagella del Mereghetti, «Saint Omer», una infanticida in cerca di grazia. Voto 8 1/2

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di Paolo Mereghetti

Il delitto quello commesso da Laurence Coly (Guslagie Malanda), quarantenne senegalese che ha seguito i genitori in Francia da bambina e che una notte ha abbandonato la figlia Elise di 15 mesi sul bagnasciuga perch la marea se la portasse via

Un delitto tanto agghiacciante quanto inspiegabile tiene insieme le storie che si intrecciano in Saint Omer, consacrato a Venezia con un Leone d’argento e il premio per il miglior esordio. Il delitto quello commesso da Laurence Coly (Guslagie Malanda), quarantenne senegalese che ha seguito i genitori in Francia da bambina e che una notte ha abbandonato la figlia Elise di 15 mesi sul bagnasciuga perch la marea se la portasse via.

Le storie sono evidentemente la sua, che scopriremo durante le udienze del processo, ma anche quella di Rama (Kayije Kagame), insegnante universitaria e scrittrice nata in Francia e anche lei figlia di senegalesi immigrati, che decide di seguire il dibattimento per utilizzarlo nel suo prossimo libro, Medea naufragata. E poi, dietro di loro, le storie delle loro rispettive madri (Salimata Kamate Diatta, la madre di Laurence, e Adama Diallo Tamba Seynabou, quella di Rama), oltre a quella della regista stessa, Alice Diop, quarantatreenne nata in Francia anche lei da genitori senegalesi, qui al suo primo lungometraggio di finzione dopo una applaudita carriera come documentarista.

Se si escludono poche scene all’inizio e alla fine della pellicola, dove vediamo Rama con il compagno musicista (Thomas de Pourquery) o con madre e sorelle, tutto il film si svolge all’interno dell’aula dove si svolge il dibattimento: una macchina sostanzialmente fissa, puntata ora su Laurence, ora sul presidente del tribunale (Valrie Drville), ora sull’avvocato difensore (Aurlia Petit) o su quello dell’accusa (Robert Cantarella) oppure sul pubblico tra cui siede Rama. Nessuno svolazzo, nessuna belluria ma solo l’immagine frontale di chi sta parlando per dare il massimo risalto ai dialoghi. E che dialoghi!

Da subito, l’attenzione della sceneggiatura (firmata dalla regista con la sua tradizionale collaboratrice Amrita David e la scrittrice Marie N’Diaye e ispirata al processo svolto nel 2016 a Fabienne Kabou, accusata dello stesso delitto) puntata sul comportamento dell’accusata, sulle ragioni che l’hanno spinta a un gesto tanto atroce, sulle tante contraddizione della sua vita, sull’ambiguo legame con l’uomo pi anziano (Xavier Masly) che l’ha accolta in casa e con cui ha concepito la piccola Elisa tenendola per nascosta ai suoi parenti.

Coly viene incalzata soprattutto dalla presidente della corte che pi delle dinamiche dell’omicidio si interessa agli stati d’animo dell’imputata, alle sue contraddizioni, alle sue spiegazioni troppo parziali. E tutto sotto gli occhi di Rama, che da quelle parole si sente toccata in profondit.

Girato in progressione per non disperdere la tensione delle riprese, con una fotografia (di Claire Mathon) che in ogni inquadratura tende a privilegiare un colore (il rosso per la presidente, il nero per l’avvocato difensore, il bruno per l’accusata che rimanda ai ritratti di Rembrandt e sembra citare il celebre Grape Wine di Andrew Wyeth), il film scava cos nei tanti temi con cui le donne di colore devono fare i conti: l’eredit culturale del colonialismo, il complicato rapporto (anche tossico) con le madri viste come depositarie di una tradizione africana a cui non estranea la stregoneria, la condanna all’invisibilit o all’emarginazione nella societ in cui cercano accoglienza… e poi ancora il peso della maternit, del razzismo, dell’incomprensione, dell’inferiorit sociale, della colpa…

E cos, scena dopo scena, dialogo dopo dialogo, ci si accorge che la vera urgenza del film non tanto arrivare al verdetto finale (che per altro non ascolteremo mai) ma piuttosto cercare quella componente di dignit umana che esiste anche in chi ha compiuto un atto atroce come l’infanticidio. Lo spiegava Rama alle sue allieve all’inizio del film, quando di fronte alle immagini delle donne rasate per aver collaborato con gli occupanti nazisti ricordava la lezione di Marguerite Duras sulla sublimazione del reale per trasformare chi era stato oggetto di obbrobrio pubblico in un soggetto in stato di grazia. Anche se si comportata come Medea.

6 dicembre 2022 (modifica il 6 dicembre 2022 | 19:50)

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, 2022-12-06 19:33:00, Il delitto è quello commesso da Laurence Coly (Guslagie Malanda), quarantenne senegalese che ha seguito i genitori in Francia da bambina e che una notte ha abbandonato la figlia Elise di 15 mesi sul bagnasciuga perché la marea se la portasse via,

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