«Boris Godunov», dietro le quinte della Scala per il capolavoro russo

«Boris Godunov», dietro le quinte della Scala per il capolavoro russo

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di Giuseppina Manin

Maestranze, artisti e direttori alle prese con gli ultimi dettagli prima della rappresentazione. «E’ stato anche ricreato il portale dorato del Cremlino»

Il fiume della storia è fatto di carta e di parole. Scritte, corrette, cancellate, riscritte. Vergate a mano con un meticoloso pennino, costellate di macchie d’inchiostro, di disegni schizzati a fianco a completare il racconto. Il fiume della storia, quella di Boris Godunov ma anche della Russia, sgorga sulla scena della Scala ma nasce dal dietro le quinte. Là dove da mesi artisti e tecnici sono impegnati nella costruzione dell’Opera con la maiuscola, quella che ogni 7 dicembre segna l’inizio della stagione. E stavolta tocca al capolavoro di Modest Musorgskij, ritratto in nero di uno degli zar più tragici e controversi, emblema e denuncia quanto mai attuali di un potere che cambia volto ma non il cuore di tenebra.

Titolo amatissimo al Piermarini, 25 edizioni, memorabile quella del 1979 di Abbado e Ljubimov, questo nuovo Boris, voluto dal maestro Chailly nella sua prima versione audace e visionaria, ha per protagonista il basso Ildar Abdrazakov. Allestimento firmato dal regista Kasper Holten, scene di Es Devlin. Ideatrice della gigantesca carta geografica che fa da sfondo alla vicenda e del rotolo di pergamena su cui il monaco Pimen (Ain Anger), mette nero su bianco le cronache di quei tempi oscuri. Ricostruite dai versi di Puškin, il poeta ribelle, dal cui dramma Musorgskij trasse il libretto.

Bianco, nero e oro, i colori fondamentali di uno spettacolo scandito da una prima parte naturalistica e una seconda onirica, con momenti fastosi e altri di grande cupezza, persino con tratti horror. Come la comparsa del fantasma insanguinato del piccolo Zarevic a cui tagliano la gola su ordine di Boris. «Per la scena dell’incoronazione abbiamo ricreato il portale dorato del Cremlino – spiega Marco Di Battista, uno degli scultori del team scaligero capitanato da Venanzio Alberti – L’abbiamo ricostruito in poliuretano sullo stampo di un disegno 3D, tale e quale quello da cui, ancora oggi, vediamo uscire Putin. E sempre la nostra squadra ha ricreato le alabarde e gli stendardi luccicanti che accompagnano il corteo di sacerdoti e boiari all’uscita trionfale dello zar».

«E proprio in quel punto, visto lo scatenarsi del folle scampanio, ho pensato di far apparire Boris con un abito suntuoso a forma di campana – rivela la costumista Ida Marie Ellekilde – Seguendo il flusso della storia voluto dal regista, ho disegnato una serie di vestiti diacronici, con elementi antichi e moderni insieme, per spaziare dall’epoca di Boris fino alla nostra. Per esempio, gli abiti a doppio petto riprendono l’allacciatura tradizionale dei cosacchi, mentre alcune maniche delle giacche sono ampie secondo la moda del Cinquecento».

E se Holten firma la regia, chi gli sta a fianco è Marco Monzini, aiuto regista del Piermarini, maestro nel risolvere anche le sfide impossibili. «Come reperire i 34 bambini che interpretano altrettanti piccoli uccisi, portati a braccia e ammonticchiati in scena, quasi a far corona allo spettro dello Zarevic Dmitrij». Un momento di grande impatto emotivo, difficile non pensare alle recenti immagini di fosse comuni in Ucraina. Grande l’impegno anche degli artisti dei Cori, quello canonico guidato da Alberto Malazzi e quello delle Voci Bianche di Bruno Casoni. «Il testo russo ha richiesto una complessa traslitterazione modulata sulla pronuncia italiana – precisa Malazzi -. E per l’occasione abbiamo aggiunto in organico sei cantanti di madre lingua russa capaci di dare l’impronta giusta a un coro che, incarnando il popolo, è il coprotagonista dell’opera».

E mentre nel backstage si danno gli ultimi ritocchi, in buca l’orchestra cesella ogni nota sotto la guida di Chailly. Ma durante una pausa tutti si ritrovano per far festa a Marcello Sirotti, violoncellista di lungo corso che in queste ore va in pensione. E da 40 anni risuona in orchestra anche la tromba di Mauro Edantippe. «Sì, c’ero anche nel Boris di Abbado. Un’esperienza indimenticabile, tutti lo seguivano con un fervore speciale. Tornare a eseguire oggi il Boris sotto la guida di un altro grande maestro, è un privilegio. Raramente come in quest’opera gli ottoni hanno un rilievo così importante. Sono loro a creare la maestosità e la religiosità dell’opera».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

29 novembre 2022 (modifica il 29 novembre 2022 | 17:28)

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, 2022-11-29 19:30:00,

di Giuseppina Manin

Maestranze, artisti e direttori alle prese con gli ultimi dettagli prima della rappresentazione. «E’ stato anche ricreato il portale dorato del Cremlino»

Il fiume della storia è fatto di carta e di parole. Scritte, corrette, cancellate, riscritte. Vergate a mano con un meticoloso pennino, costellate di macchie d’inchiostro, di disegni schizzati a fianco a completare il racconto. Il fiume della storia, quella di Boris Godunov ma anche della Russia, sgorga sulla scena della Scala ma nasce dal dietro le quinte. Là dove da mesi artisti e tecnici sono impegnati nella costruzione dell’Opera con la maiuscola, quella che ogni 7 dicembre segna l’inizio della stagione. E stavolta tocca al capolavoro di Modest Musorgskij, ritratto in nero di uno degli zar più tragici e controversi, emblema e denuncia quanto mai attuali di un potere che cambia volto ma non il cuore di tenebra.

Titolo amatissimo al Piermarini, 25 edizioni, memorabile quella del 1979 di Abbado e Ljubimov, questo nuovo Boris, voluto dal maestro Chailly nella sua prima versione audace e visionaria, ha per protagonista il basso Ildar Abdrazakov. Allestimento firmato dal regista Kasper Holten, scene di Es Devlin. Ideatrice della gigantesca carta geografica che fa da sfondo alla vicenda e del rotolo di pergamena su cui il monaco Pimen (Ain Anger), mette nero su bianco le cronache di quei tempi oscuri. Ricostruite dai versi di Puškin, il poeta ribelle, dal cui dramma Musorgskij trasse il libretto.

Bianco, nero e oro, i colori fondamentali di uno spettacolo scandito da una prima parte naturalistica e una seconda onirica, con momenti fastosi e altri di grande cupezza, persino con tratti horror. Come la comparsa del fantasma insanguinato del piccolo Zarevic a cui tagliano la gola su ordine di Boris. «Per la scena dell’incoronazione abbiamo ricreato il portale dorato del Cremlino – spiega Marco Di Battista, uno degli scultori del team scaligero capitanato da Venanzio Alberti – L’abbiamo ricostruito in poliuretano sullo stampo di un disegno 3D, tale e quale quello da cui, ancora oggi, vediamo uscire Putin. E sempre la nostra squadra ha ricreato le alabarde e gli stendardi luccicanti che accompagnano il corteo di sacerdoti e boiari all’uscita trionfale dello zar».

«E proprio in quel punto, visto lo scatenarsi del folle scampanio, ho pensato di far apparire Boris con un abito suntuoso a forma di campana – rivela la costumista Ida Marie Ellekilde – Seguendo il flusso della storia voluto dal regista, ho disegnato una serie di vestiti diacronici, con elementi antichi e moderni insieme, per spaziare dall’epoca di Boris fino alla nostra. Per esempio, gli abiti a doppio petto riprendono l’allacciatura tradizionale dei cosacchi, mentre alcune maniche delle giacche sono ampie secondo la moda del Cinquecento».

E se Holten firma la regia, chi gli sta a fianco è Marco Monzini, aiuto regista del Piermarini, maestro nel risolvere anche le sfide impossibili. «Come reperire i 34 bambini che interpretano altrettanti piccoli uccisi, portati a braccia e ammonticchiati in scena, quasi a far corona allo spettro dello Zarevic Dmitrij». Un momento di grande impatto emotivo, difficile non pensare alle recenti immagini di fosse comuni in Ucraina. Grande l’impegno anche degli artisti dei Cori, quello canonico guidato da Alberto Malazzi e quello delle Voci Bianche di Bruno Casoni. «Il testo russo ha richiesto una complessa traslitterazione modulata sulla pronuncia italiana – precisa Malazzi -. E per l’occasione abbiamo aggiunto in organico sei cantanti di madre lingua russa capaci di dare l’impronta giusta a un coro che, incarnando il popolo, è il coprotagonista dell’opera».

E mentre nel backstage si danno gli ultimi ritocchi, in buca l’orchestra cesella ogni nota sotto la guida di Chailly. Ma durante una pausa tutti si ritrovano per far festa a Marcello Sirotti, violoncellista di lungo corso che in queste ore va in pensione. E da 40 anni risuona in orchestra anche la tromba di Mauro Edantippe. «Sì, c’ero anche nel Boris di Abbado. Un’esperienza indimenticabile, tutti lo seguivano con un fervore speciale. Tornare a eseguire oggi il Boris sotto la guida di un altro grande maestro, è un privilegio. Raramente come in quest’opera gli ottoni hanno un rilievo così importante. Sono loro a creare la maestosità e la religiosità dell’opera».

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29 novembre 2022 (modifica il 29 novembre 2022 | 17:28)

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