133. I poster in camera

133. I poster in camera

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L’immaginazione è il motore del destino. A differenza degli animali per noi il destino non è iscritto nella necessità dell’istinto ma è una possibilità da scrivere creativamente. L’uomo è l’essere del possibile che infatti, sin da bambino, imita i modelli che gli vengono proposti. Come faccio a diventare ciò che sono se non so chi sono? Attraverso le immagini che mi offre il mondo. Per questo amiamo le storie, perché mostrano destini possibili, ipotesi narrative sulla vita (e la morte) che ci aspetta.

A Sparta l’immaginario dominante produceva soldati, ad Atene filosofi, poeti, politici e soldati. E noi che immaginario offriamo ai più affamati di possibilità, cioè bambini e adolescenti? Nel 2008 nella ricerca Eurispes su «che cosa vuoi fare da grande?», la maggioranza dei ragazzini rispondeva il calciatore, delle ragazzine la star dello spettacolo (la sovraesposizione mediatica di queste figure plasma l’immaginario). Anche io ricordo che, adolescente a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, volevo diventare come Bono degli U2.

I poster che avevamo in camera erano le nostre ipotesi di destino e anche le fragilità che dovevamo affrontare. Con il tempo ho capito che quell’immagine era solo un miraggio, così l’ho sostituita, a poco a poco, con altre rispondenti alla mia vera chiamata. Nuove immagini hanno ispirato il mio destino: il professore di lettere del liceo, quello dell’Attimo fuggente, il giovane Tolkien che con i suoi amici e le storie voleva cambiare il mondo… L’educazione dell’immaginazione e la sua continua messa a punto diventa destino. In che modo? Le immagini diventano modelli che si strutturano in ideali che spingono all’emulazione.

Di anno in anno chiedo ai miei alunni, in un questionario, di riempire la casella: «vorrei essere come…». Se all’inizio delle superiori ci sono irraggiungibili star, a poco a poco compaiono nonni, scienziati, personaggi storici, «me stesso» o la casella rimane vuota (buon segno di ricerca). Se c’è una crescita, l’immaginario, da infantile desiderio dell’impossibile, esser tutto, matura in una più realistica conoscenza di sé (limiti, attitudini, passioni) che sceglie nuove immagini. Queste immagini-faro (la meta) si nutrono di più quotidiane immagini-segnale (la rotta) che incontriamo lungo il viaggio della vita. Di queste abbiamo bisogno per non perderci nelle mille sollecitazioni iconiche della vita quotidiana, ma richiedono attenzione come chiunque vada per mare.

Farò quattro esempi di immagini-segnale che ho incontrato negli ultimi giorni. 1. In una bellissima mostra milanese di 100 fotografie di Elliott Erwitt mi ha ipnotizzato una foto scattata a Pittsburgh nel 1950, in cui un bambino ride felice puntandosi alla tempia una pistola giocattolo. Perché proprio quella? In una sola immagine Erwitt mostra la contraddittoria storia dell’Occidente, così impegnato a risolvere i problemi che crea da non aver il tempo di occuparsi delle cose fondamentali. E infatti siamo tutt’ora invischiati nel nostro impossibile rapporto con l’atomica (Kubrick nel 1964 aveva intitolato la sua commedia: Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba). In quel bambino ho visto l’immagine di ciò che non voglio diventare: uno che crede di divertirsi, mentre in realtà è sottomesso e distrutto dalle cose che usa. Mi sono chiesto quali pistole giocattolo mi sto puntando alla tempia e ho trovato alcune risposte.

2. Qualche giorno fa, in un momento di preghiera a occhi chiusi in cui non riuscivo a dire nulla se non «mi manchi», mi si è presentata, per qualche istante, un’immagine: una farfalla sbatteva le ali rapidamente lanciando i suoi colori attorno. Il greco antico per dire farfalla usa la stessa parola dell’anima (psyché), come in Amore e Psiche stanti di Canova, all’Ermitage di San Pietroburgo, in cui la seconda offre una farfalla (se stessa) al primo. Quell’immagine mi confermava il percorso di trasformazione in direzione di una rinnovata libertà e creatività nell’amore.

3. Fra qualche giorno terrò un incontro sull’importanza della lettura. Dovevo scegliere un testo per condurre un esercizio di lettura dal vivo, e ho scelto una fiaba a me cara: L’amore delle tre melagrane, raccolta da Italo Calvino nelle Fiabe italiane, altresì nota come Bianca come il latte, rossa come il sangue. Ha nutrito il mio immaginario da quando ho 11 anni (ce la fece leggere il professore di italiano Aldo Viola che ricordo sempre con gratitudine) per poi diventare il centro del mio primo romanzo. Mentre riflettevo su ciò che avrei detto, qualche giorno fa una simpatica vicina di casa mi ha regalato delle melagrane (ne aveva ricevute un bel sacco da un parente). Me ne ha donate proprio tre, che ho messo in bella vista nella mia cucina. Era la conferma dell’immagine che porto dentro di me. La melagrana è simbolo di abbondanza per i suoi arilli, i succosi e dissetanti grani rossi, sorprendenti se si pensa che l’albero cresce in zone con pochissima acqua. Nella cultura ebraica rappresenta infatti il cuore, e gli arilli sono 613, quanti i precetti della Legge, immagine dell’alleanza tra Dio e l’uomo. In ambito cristiano, come nella splendida Madonna della melagrana di Botticelli agli Uffizi, il frutto indica la passione di Cristo che ama l’uomo fino a donare la vita. Per questo la melagrana è diventato segno di buon augurio tra Natale e Capodanno. Le tre melagrane mi ricordano che posso dare frutti succosi anche quando mi sembra di avere in e fuori di me un terreno arido, se coltivo il mio rapporto con l’Amore Creatore divento creatore anche io, nel mio piccolo.

4. Mi stavo godendo una passeggiata dai primi colori autunnali in un parco ricco di alberi provenienti da tutto il mondo, quando la mia amata mi ha fatto notare un grande albero con delle curiose radici che escono dal terreno in verticale come canne di un organo. Così ho fatto conoscenza del Cipresso calvo o delle paludi che, per procurarsi ossigeno nei terreni acquitrinosi, produce dei veri e propri «boccagli»: qualsiasi altro albero «annega». Anche questa immagine ha cominciato a lavorare dentro di me, confermando la rotta: quando sono sott’acqua c’è sempre una via per respirare. E così mi sono chiesto quali «radici verticali» devo produrre e proteggere nei momenti «paludosi».

Riuscire a trattenere le immagini che contengono pezzi del puzzle del nostro destino non è facile oggi perché, nella continua fruizione telematica, subiamo una tempesta di immagini mai vista nella storia umana: l’Homo Sapiens è diventato Videns (vede tutto ma non presta attenzione a niente, è un iper-vedente cieco, che presto userà infatti l’Oculus del metaverso).

L’intasamento dell’immaginario non è senza conseguenze, provoca infatti la crisi dell’immaginazione: la capacità logica è indebolita (l’eccesso di immagini genera confusione e limita il pensiero astratto) e la nostra creatività è dispersa tra infinite rotte possibili. Il consumismo ha bisogno di generare continuamente immagini desiderabili per darci destini a portata di portafogli, ma il consumismo non è la causa ma la conseguenza di un io senza destino (nichilismo e individualismo) che, per farsi e darsi forza, si aggrappa ai coriandoli di futuro più seducenti.

Oggi per trovare e conservare immagini di destino capaci di guidarci in porto dobbiamo praticare un certo digiuno immaginativo e il silenzio dell’attenzione. Solo così riusciamo a ricevere immagini che ci fanno entrare in risonanza, ci risvegliano, perché sono richiami del futuro che è già dentro di noi, ma che ha bisogno di darsi un volto. Sono immagini che vanno coltivate, approfondite, interrogate… appendendole, come poster, alle pareti dell’anima. Ognuno di noi ha una costellazione di immagini guida, che lo voglia o no. Ma la rotta va impostata seguendo le stelle giuste, altrimenti sarà un dis-astro (la stella contro), questa operazione richiede qualche minuto di meditazione silenziosa ogni giorno. Quali sono le nostre? Solo così potremo abbracciare destini che diventano destinazioni e non naufragi.

17 ottobre 2022, 07:14 – modifica il 17 ottobre 2022 | 07:14

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-10-17 05:39:00,

L’immaginazione è il motore del destino. A differenza degli animali per noi il destino non è iscritto nella necessità dell’istinto ma è una possibilità da scrivere creativamente. L’uomo è l’essere del possibile che infatti, sin da bambino, imita i modelli che gli vengono proposti. Come faccio a diventare ciò che sono se non so chi sono? Attraverso le immagini che mi offre il mondo. Per questo amiamo le storie, perché mostrano destini possibili, ipotesi narrative sulla vita (e la morte) che ci aspetta.

A Sparta l’immaginario dominante produceva soldati, ad Atene filosofi, poeti, politici e soldati. E noi che immaginario offriamo ai più affamati di possibilità, cioè bambini e adolescenti? Nel 2008 nella ricerca Eurispes su «che cosa vuoi fare da grande?», la maggioranza dei ragazzini rispondeva il calciatore, delle ragazzine la star dello spettacolo (la sovraesposizione mediatica di queste figure plasma l’immaginario). Anche io ricordo che, adolescente a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, volevo diventare come Bono degli U2.

I poster che avevamo in camera erano le nostre ipotesi di destino e anche le fragilità che dovevamo affrontare. Con il tempo ho capito che quell’immagine era solo un miraggio, così l’ho sostituita, a poco a poco, con altre rispondenti alla mia vera chiamata. Nuove immagini hanno ispirato il mio destino: il professore di lettere del liceo, quello dell’Attimo fuggente, il giovane Tolkien che con i suoi amici e le storie voleva cambiare il mondo… L’educazione dell’immaginazione e la sua continua messa a punto diventa destino. In che modo? Le immagini diventano modelli che si strutturano in ideali che spingono all’emulazione.

Di anno in anno chiedo ai miei alunni, in un questionario, di riempire la casella: «vorrei essere come…». Se all’inizio delle superiori ci sono irraggiungibili star, a poco a poco compaiono nonni, scienziati, personaggi storici, «me stesso» o la casella rimane vuota (buon segno di ricerca). Se c’è una crescita, l’immaginario, da infantile desiderio dell’impossibile, esser tutto, matura in una più realistica conoscenza di sé (limiti, attitudini, passioni) che sceglie nuove immagini. Queste immagini-faro (la meta) si nutrono di più quotidiane immagini-segnale (la rotta) che incontriamo lungo il viaggio della vita. Di queste abbiamo bisogno per non perderci nelle mille sollecitazioni iconiche della vita quotidiana, ma richiedono attenzione come chiunque vada per mare.

Farò quattro esempi di immagini-segnale che ho incontrato negli ultimi giorni. 1. In una bellissima mostra milanese di 100 fotografie di Elliott Erwitt mi ha ipnotizzato una foto scattata a Pittsburgh nel 1950, in cui un bambino ride felice puntandosi alla tempia una pistola giocattolo. Perché proprio quella? In una sola immagine Erwitt mostra la contraddittoria storia dell’Occidente, così impegnato a risolvere i problemi che crea da non aver il tempo di occuparsi delle cose fondamentali. E infatti siamo tutt’ora invischiati nel nostro impossibile rapporto con l’atomica (Kubrick nel 1964 aveva intitolato la sua commedia: Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba). In quel bambino ho visto l’immagine di ciò che non voglio diventare: uno che crede di divertirsi, mentre in realtà è sottomesso e distrutto dalle cose che usa. Mi sono chiesto quali pistole giocattolo mi sto puntando alla tempia e ho trovato alcune risposte.

2. Qualche giorno fa, in un momento di preghiera a occhi chiusi in cui non riuscivo a dire nulla se non «mi manchi», mi si è presentata, per qualche istante, un’immagine: una farfalla sbatteva le ali rapidamente lanciando i suoi colori attorno. Il greco antico per dire farfalla usa la stessa parola dell’anima (psyché), come in Amore e Psiche stanti di Canova, all’Ermitage di San Pietroburgo, in cui la seconda offre una farfalla (se stessa) al primo. Quell’immagine mi confermava il percorso di trasformazione in direzione di una rinnovata libertà e creatività nell’amore.

3. Fra qualche giorno terrò un incontro sull’importanza della lettura. Dovevo scegliere un testo per condurre un esercizio di lettura dal vivo, e ho scelto una fiaba a me cara: L’amore delle tre melagrane, raccolta da Italo Calvino nelle Fiabe italiane, altresì nota come Bianca come il latte, rossa come il sangue. Ha nutrito il mio immaginario da quando ho 11 anni (ce la fece leggere il professore di italiano Aldo Viola che ricordo sempre con gratitudine) per poi diventare il centro del mio primo romanzo. Mentre riflettevo su ciò che avrei detto, qualche giorno fa una simpatica vicina di casa mi ha regalato delle melagrane (ne aveva ricevute un bel sacco da un parente). Me ne ha donate proprio tre, che ho messo in bella vista nella mia cucina. Era la conferma dell’immagine che porto dentro di me. La melagrana è simbolo di abbondanza per i suoi arilli, i succosi e dissetanti grani rossi, sorprendenti se si pensa che l’albero cresce in zone con pochissima acqua. Nella cultura ebraica rappresenta infatti il cuore, e gli arilli sono 613, quanti i precetti della Legge, immagine dell’alleanza tra Dio e l’uomo. In ambito cristiano, come nella splendida Madonna della melagrana di Botticelli agli Uffizi, il frutto indica la passione di Cristo che ama l’uomo fino a donare la vita. Per questo la melagrana è diventato segno di buon augurio tra Natale e Capodanno. Le tre melagrane mi ricordano che posso dare frutti succosi anche quando mi sembra di avere in e fuori di me un terreno arido, se coltivo il mio rapporto con l’Amore Creatore divento creatore anche io, nel mio piccolo.

4. Mi stavo godendo una passeggiata dai primi colori autunnali in un parco ricco di alberi provenienti da tutto il mondo, quando la mia amata mi ha fatto notare un grande albero con delle curiose radici che escono dal terreno in verticale come canne di un organo. Così ho fatto conoscenza del Cipresso calvo o delle paludi che, per procurarsi ossigeno nei terreni acquitrinosi, produce dei veri e propri «boccagli»: qualsiasi altro albero «annega». Anche questa immagine ha cominciato a lavorare dentro di me, confermando la rotta: quando sono sott’acqua c’è sempre una via per respirare. E così mi sono chiesto quali «radici verticali» devo produrre e proteggere nei momenti «paludosi».

Riuscire a trattenere le immagini che contengono pezzi del puzzle del nostro destino non è facile oggi perché, nella continua fruizione telematica, subiamo una tempesta di immagini mai vista nella storia umana: l’Homo Sapiens è diventato Videns (vede tutto ma non presta attenzione a niente, è un iper-vedente cieco, che presto userà infatti l’Oculus del metaverso).

L’intasamento dell’immaginario non è senza conseguenze, provoca infatti la crisi dell’immaginazione: la capacità logica è indebolita (l’eccesso di immagini genera confusione e limita il pensiero astratto) e la nostra creatività è dispersa tra infinite rotte possibili. Il consumismo ha bisogno di generare continuamente immagini desiderabili per darci destini a portata di portafogli, ma il consumismo non è la causa ma la conseguenza di un io senza destino (nichilismo e individualismo) che, per farsi e darsi forza, si aggrappa ai coriandoli di futuro più seducenti.

Oggi per trovare e conservare immagini di destino capaci di guidarci in porto dobbiamo praticare un certo digiuno immaginativo e il silenzio dell’attenzione. Solo così riusciamo a ricevere immagini che ci fanno entrare in risonanza, ci risvegliano, perché sono richiami del futuro che è già dentro di noi, ma che ha bisogno di darsi un volto. Sono immagini che vanno coltivate, approfondite, interrogate… appendendole, come poster, alle pareti dell’anima. Ognuno di noi ha una costellazione di immagini guida, che lo voglia o no. Ma la rotta va impostata seguendo le stelle giuste, altrimenti sarà un dis-astro (la stella contro), questa operazione richiede qualche minuto di meditazione silenziosa ogni giorno. Quali sono le nostre? Solo così potremo abbracciare destini che diventano destinazioni e non naufragi.

17 ottobre 2022, 07:14 – modifica il 17 ottobre 2022 | 07:14

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, Alessandro D’Avenia

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