di Andrea Batilla
Uno scrittore ed esperto di costume, capace di leggere i messaggi nascosti dietro le scelte estetiche, analizza il modo in cui le donne con cariche politiche istituzionali si vestono nelle occasioni ufficiali. «Nella foto al Quirinale si fa quasi fatica a distinguerle dai loro colleghi maschi», scrive. Storia di come il tailleur sia diventato una divisa. Con qualche significativa eccezione
Eugenia Maria Roccella, Alessandra Locatelli, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Marina Elvira Calderone, Anna Maria Bernini, Daniela Garnero Santanchè e Giorgia Meloni il giorno del giuramento del nuovo governo si sono tutte presentate al Quirinale in rigorosi tailleur maschili perlopiù scuri. Solo Casellati e Locatelli hanno optato per il bianco ma sempre rigorosissimo.
Per dare un senso (perché un senso ce l’ha) a un’apparentemente superficiale scelta estetica bisogna andare non troppo indietro nel tempo, al 5 settembre 2019.
La ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova si era presentata al giuramento del Conte II con un vestito fluido con una serie di piccole ruches in seta blu cobalto, la ministra dell’Innovazione tecnologica e digitalizzazione Paola Pisano indossava una camicia in seta bianca e una lunga gonna stampata mentre Nuzia Catalfo, al Lavoro e politiche sociali, aveva un tailleur fluido dal sapore sportswear, color beige. Bellanova in particolare è stata subito dopo oggetto di un attacco frontale proprio per il modo in cui era vestita, avvertito evidentemente da molti come inadeguato all’occasione e anche non in linea con la sua fisicità. Daniele Capezzone, politico di lungo corso, ha usato le parole «Carnevale? Halloween?».
TRA GLI ESPLOSIVI ANNI 70 E I PRODUTTIVI ANNI 80, QUELLI FEMMINILI SONO CORPI CHE LAVORANO, ACCETTANO LE REGOLE, SI “NASCONDONO” NEL GRUPPO
L’abito, il monaco e la ministra
Non troppo stranamente la valanga successiva di insulti social ha inchiodato il presupposto cattivo gusto di Bellanova al fatto che il suo percorso di studi si fosse fermato alla terza elementare e che lei, prima di fare la sindacalista, fosse una semplice bracciante.
Guardando ad uno scenario internazionale le figure femminili di importanza cardinale nella politica sono molte: Hillary Clinton, ex Segretaria di Stato degli Stati Uniti, Angela Merkel, ex Cancelliere tedesco, Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea o Liz Truss, ex Primo Ministro inglese.
Anche in questo caso il loro modo di vestire è piuttosto simile: rigoroso anche se colorato, con una giacca maschile come elemento dominante e assolutamente senza nessun accenno di femminilità né nei capelli né nel trucco.
Vestirsi e “travestirsi”
Tutto questo non solo non ha niente di superficiale ma ci racconta molto di come l’estetica interagisce costantemente con la costruzione del sociale e con i suoi significati storici, politici, psicologici e anche antropologici.
Le donne hanno cominciato a vestirsi da uomo agli inizi del ‘900, usando quella che allora veniva percepita come una forma di travestimento, ma a volte anche di travestitismo, per rimarcare la differenza in termini di diritti civili e di posizioni sociali tra uomini e donne. Forse è necessario ricordare che il diritto di voto alle donne viene concesso per la prima volta in Europa nel 1907 dalla Finlandia e in Italia arriva solo nel 1946.
Il vestirsi da uomo, cioè adottare la regina di tutte le uniformi, ha avuto per molto tempo un significato dimostrativo, di protesta contro le disparità di trattamento salariale, di possibilità di accedere a cariche importanti, di vedersi riconosciuti dei diritti basilari come quello del congedo pagato per maternità. Gli inizi del femminismo, a partire dal movimento inglese delle suffragette di fine Ottocento fino agli anni Sessanta della beat generation, hanno fatto coincidere l’espressione della libertà individuale femminile con l’appropriazione indebita del vestire maschile che non solo era una chiara rappresentazione del potere ma era anche più pratico, duttile, quotidiano.
Tutto però ha preso una forma diversa a partire dagli anni Ottanta del Novecento.
Cambio di passo, e di significato
Nella decade dell’apparenza e dell’ossessione per la dimostrazione pubblica di raggiunti obiettivi economici, l’abito maschile è diventato per le donne un modo per dimostrare vicinanza e acquiescenza rispetto al modello prevalente di gestione del potere. Le mitiche business woman dell’epoca, finalmente raggiunte posizioni dirigenziali di rilievo, si erano ben guardate da scardinare il modello ottocentesco del vestire maschile ma anzi lo avevano razziato a quattro mani, anche grazie all’aiuto di designer come Giorgio Armani o Calvin Klein. Giacca, camicia e pantaloni con le pinces, nel periodo dell’edonismo reganiano, smettono di essere simboli di lotta e diventano icone dell’assorbimento di principi con una forte radice maschilista come la prevalenza etica del lavoro sulla vita privata, la corsa al successo, la dimostrazione di appartenenza ad un gruppo di privilegiati.
In una parola, per le donne il vestirsi in maniera maschile diventa un arretramento culturale che viene favorito in diretta opposizione agli eccessi della liberazione sessuale femminista degli anni Settanta e della sua estetica psichedelica non conforme a nessuna regola.
Vita e lavoro
Quello a cui non si pensa quasi mai infatti, è che tra gli esplosivi Anni Settanta e gli iperproduttivi Anni Ottanta si perde di vista il corpo femminile. Mentre un corpo qualsiasi, naturalmente nudo, fa parte dell’iconografia del decennio delle rivoluzioni sociali e porta con sé un fortissimo coefficiente anti istituzionale, un corpo ricoperto dalla testa ai piedi, come era quello della straordinaria manager milanese Marisa Bellisario, è un corpo che lavora, che accetta le regole di un sistema maschile e non le vuole più cambiare, tentando di adeguarsi, di assomigliare al resto del gruppo, in qualche modo di nascondersi.
NON E’ CONSENTITO PORTARE IN UN CONSESSO POLITICO ISTITUZIONALE ABITI SIMBOLICAMENTE VICINI AI CONCETTI DI MATERNITA’ O ACCOGLIENZA
La femminilità cancellata
Con questo rigido paradigma storico culturale davanti agli occhi e con una disparità ancora evidente tra uomini e donne, possiamo tornare alla compagine del governo Meloni ma soprattutto a Teresa Bellanova. L’allora ministro dell’agricoltura si presenta nel palazzo del potere per eccellenza rifiutando l’uniforme maschile, in cosciente e netto distacco con le dinamiche di accettabilità e scaraventa davanti agli occhi esterrefatti di tutti i presenti un’immagine di donna carnale, femminile, in poche parole libera. Lei stessa dirà: «La vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo: io ieri mi sentivo entusiasta, blue elettrica e a balze e così mi sono presentata. Sincera come una donna». Il suo, vero o no, è un allontanamento dai meccanismi centenari del potere e un momento di forte affermazione del femminile come principio di identificazione. La stessa cosa si può dire per la leader dei verdi danesi Pia Olsen Dyhr e la premier Mette Frederiksen che durante un dibattito post elettorale discutono animatamente di politica con due allegri vestiti a fiori, mentre è decisamente più rassicurante Kari Lake, candidata a governatore dell’Arizona per i repubblicani che usa abiti femminili da cui è stata cancellata ogni decorazione.
Quello che è sempre stato considerato uno strumento di affermazione o empowerment per le donne, il vestirsi da uomo, è in effetti solo l’accettazione di un codice di regole patriarcale o maschilista che dir si voglia.
Valori e archetipi
I valori che di solito vengono attribuiti al femminile, che venga concepito come struttura culturale costruita o come archetipo esistente in sé, sono di fatto ancora oggi dirompenti e portare in un consesso politico istituzionale abiti simbolicamente vicini ai concetti di maternità, accoglienza, abbondanza, accettazione e, ovviamente, carica erotica, non è semplicemente concesso.
Anche nel resto del mondo, come abbiamo visto, quello che si chiama interiorizzazione del patriarcato è ampiamente manifesto nel modo in cui si veste la propria persona pubblica. È raro trovare, anche in Inghilterra, patria di tutti i pattern floreali, donne che si concedano digressioni dal tema della rigidità maschile quando occupano posizioni di rilievo politico.
L’abito fa politica
Questa storia si conclude con il tailleur nero di Armani indossato dalla stessa Giorgia Meloni il giorno del giuramento del suo governo. La prima donna a capo di un governo italiano ci sta dicendo che riconosce il potere maschile, ne condivide il sistema di regole. Questo è innanzitutto rassicurante ma soprattutto rende il suo gioco assolutamente poco prevedibile perché l’azione di mascheramento è stata portata a termine alla perfezione. Avremo modo di giudicare l’operato delle nuove ministre e di Meloni, ma nel frattempo sappiamo che qualunque tipo di carica innovativa, per non dire eversiva, è stata cancellata dal loro modo di apparire tanto che, viste nella foto di rito al Quirinale, si fa quasi fatica a distinguerle dai loro colleghi maschi. Al contrario delle loro colleghe di sinistra dimostrano poca volontà di auto identificazione, di personalizzazione del messaggio ma anche di protagonismo e molta cautela nel raccontarsi.
Tutto questo può suonare strano ma è chiaro che la gestione del potere da sempre ha bisogno di una rappresentazione che passa anche, molto, attraverso gli abiti. Quando ci immaginiamo che certi meccanismi sociali si siano fortemente evoluti dovremmo invece pensare che questo tipo di strutture culturali sono per natura solidissime e difficilmente attaccabili e che ogni giorno interagiscono con il nostro modo di vivere. È vero anche, come ci ha insegnato Bellanova, che possono diventare degli strumenti potentissimi di comunicazione e di cambiamento che però, al momento, nessuno sta pensando di usare.
24 novembre 2022 (modifica il 24 novembre 2022 | 09:25)
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, 2022-11-24 08:26:00, Uno scrittore ed esperto di costume, capace di leggere i messaggi nascosti dietro le scelte estetiche, analizza il modo in cui le donne con cariche politiche istituzionali si vestono nelle occasioni ufficiali. «Nella foto al Quirinale si fa quasi fatica a distinguerle dai loro colleghi maschi», scrive. Storia di come il tailleur sia diventato una divisa. Con qualche significativa eccezione, Andrea Batilla