Aborto, il più fragile dei diritti che riguarda tutti noi | Paolo Giordano

Aborto, il più fragile dei diritti che riguarda tutti noi | Paolo Giordano

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di Paolo Giordano

Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, e la sua messa in discussione un tabù. Oggi però la corrente spinge in senso opposto. E anche qui – non solo negli Usa – non possiamo sentirci al sicuro

Fra i diritti della modernità — quei diritti che ci fanno sentire fortunati di vivere in un presente per molti versi difficile —, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti.

Lo è sempre stato.

E non tanto, come si ritiene comunemente, per la «delicatezza» del tema, per le aree di coscienza personale che investe e per quanto sia difficile stabilire scientificamente dove inizia la vita umana, quanto per la mole di pregiudizi — quasi tutti di matrice sessista — che attiva ancora in noi.

Il più odioso di tutti, sotteso a molte posizioni dei gruppi di destra e dei movimenti pro vita, è che l’aborto sia in fin dei conti una via comoda, quasi sempre la riparazione di una sbadataggine, e comunque evitabile.

A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, l’aborto è ancora qualcosa di cui non si parla, mai, neppure in privato, con la sola eccezione degli ambienti femministi. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma perfino per le coppie stabili.

Se la legge ne ha sancito ormai da tempo la possibilità, la cultura non è mai riuscita a cancellarne i corollari di vergogna, di sconfitta, anzi peggio, di colpa.

Per questo, ancora oggi, viene implicitamente accettato che l’aborto non debba essere del tutto indolore, almeno non psicologicamente, che qualsiasi forma di ripensamento debba essere indotta nella donna, anche quando sconfina nell’aggressione mentale.

Da qui, le contiguità con i reparti di ostetricia, le mini odissee e le piccole umiliazioni, e sempre da qui lo scontento mai smaltito di alcuni verso l’introduzione della pillola RU486.

Nel libro Mai dati, l’indagine di Chiara Lalli e Sonia Montegiove sullo stato dell’applicazione della 194 in Italia, le autrici ci ricordano che l’interruzione volontaria di gravidanza «è un servizio medico».

Ma illustrano anche come si stia trasformando sempre di più «in una questione di coscienza — del medico, ovviamente, perché la donna che abortisce forse la coscienza non ce l’ha».

Insomma, la 194 esiste ed è espletata, ma è anche avvolta in una nebbia. Una nebbiolina morale, appunto, che la tiene separata da ciò che è considerato davvero opportuno. Che rende la situazione difforme sul territorio nazionale e i dati reali inconoscibili. Una nebbia che non si sta affatto diradando, anzi.

E tuttavia, nel giorno buio in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rovesciato la sentenza Roe vs. Wade , ci siamo sentiti abbastanza al sicuro. Povera America, che sprofonda nel proprio oscurantismo. Noi, qui, abbiamo la 194, forse non è perfetta ma nessuno oserà mai toccarla, perché il progresso va avanti e non indietro, la consapevolezza cresce e non diminuisce, i diritti si conquistano e non si perdono. In fondo, troviamo confortante perfino l’estremismo di esponenti come il senatore Pillon: finché certe idee sono appannaggio di personaggi così, significa che sono relegate ai margini del dibattito pubblico, dove non fanno danni. Poco importa che, con quelle stesse opinioni, flirtino a diversi livelli i partiti di cui quegli esponenti fanno parte, e la destra tutta. Poco importa che la decisione della Corte Suprema sia una tappa eclatante di un percorso che va avanti da molti anni, anche in Europa, vicinissimo a noi. E poco importa che la Chiesa, che proprio ai margini del dibattito non è, l’abbia accolta, pur con tutte le cautele retoriche del caso, con la massima gioia. Come si dice in questi casi: la Chiesa fa la Chiesa, non possiamo mica pretendere.

Facendo qualche passo indietro per osservare il quadro nel suo complesso, la situazione è tutt’altro che rassicurante. E dovrebbe portarci a concludere che no, non siamo poi così al sicuro neppure qui. La tutela delle ragazze e delle donne nel nostro Paese non è così al sicuro. Non lo era giorni fa, e lo è meno che mai da venerdì scorso.

Non solo. È ingenuo pensare che la decisione della Corte negli Stati Uniti non abbia già innescato una serie di conseguenze a distanza. Da venerdì, l’idea dell’aborto è un po’ meno legittima anche nella mente di tutti noi, e quel senso subliminale d’illegittimità filtrerà rapidamente nella coscienza delle generazioni più giovani (generazioni alle quali sono già state sottratte molte forme di educazione alla sessualità, alla contraccezione, e la cui libertà di scelta è già in parte compromessa). Aumenteranno la confusione, la paura, il disprezzo di sé, la solitudine. Perché l’aborto è una delle esperienze di solitudine peggiore a cui si possa pensare. Una sentenza emessa al di là dell’Atlantico ha già aggravato il peso psicologico delle ragazze e delle donne che questa settimana, il prossimo mese o fra un anno decideranno di abortire qui. Sconteranno ancora più pesantemente una scelta che il nostro codice riconosce come legittima.

Il presidente Biden ha detto: «It’s not over», non è finita. Ci mancherebbe che lo fosse. Ma aggrapparsi al suo tenue spirito combattivo, così come alle immagini delle proteste a Washington, ha un sapore perdente. Sentenze come Roe vs. Wade, del 1973, e leggi come la nostra, del 1978, sono state possibili in un periodo storico molto specifico, trascinate da un flusso. Oggi non esiste nemmeno un briciolo della propulsione ideologica di quel tempo. Al contrario, tutto suggerisce che la corrente spinga in senso opposto. Da anni, in Italia, non c’è un avanzamento davvero significativo sul fronte delle libertà civili. E ciò che viene perso sembra essere perso e basta.

All’inizio, lo ammetto, avevo scritto «eroso»: «ciò che viene eroso», ma rileggendo mi sono accorto che anche quel termine denunciava un modo di ragionare obsoleto. È proprio questo il punto: siamo abituati a pensare che i nostri diritti fondamentali possano essere al più «erosi», ma questo non è più il tempo dell’erosione: oggi i pezzi della montagna si staccano e crollano al suolo. In un istante.

Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, un assioma, e la sua messa in discussione un tabù. Che per alcuni si tratti di una visione estremista m’interessa poco: ho assorbito il principio per cui qualsiasi tentativo di limitare il diritto di scelta della donna in materia di interruzione della gravidanza non è davvero per la salvaguardia di un’altra vita, ma ha solo un intento punitivo e controllante. Il mio primo ostacolo — il mio e suppongo quello di molti e molte — è innanzitutto credere che qualcosa del genere stia capitando. Ma così è. Occorre imparare il più velocemente possibile come si vive su un piano inclinato al contrario, come ci si aggrega veramente e come si protesta mentre il mondo scivola. Un’indicazione semplice eppure non ovvia l’ha data la scrittrice Rebecca Solnit, reagendo alla sentenza della Corte: «Quelli di noi che non sono sotto attacco diretto devono stare dalla parte di coloro che lo sono». Semplice. Quelli che non sono sotto attacco diretto (o almeno non ci si sentono) sono tanto per cominciare la metà maschile della popolazione.

Fra i diritti della modernità, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti. Lo è sempre stato. Proprio per questo è un diritto segnante della nostra civiltà. Togliamo quel diritto, indeboliamolo anche solo, e vedremo che no, tutto il resto non si regge comunque in piedi.

26 giugno 2022 (modifica il 26 giugno 2022 | 10:28)

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, 2022-06-26 12:11:00, Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, e la sua messa in discussione un tabù. Oggi però la corrente spinge in senso opposto. E anche qui – non solo negli Usa – non possiamo sentirci al sicuro, Paolo Giordano

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