Puntare tutto sull’immunizzazione e trascurare la messa in sicurezza delle classi e delle aule universitarie è frutto di scelte affidate ai soli medici. Ma c’è ancora tempo per dare spazio agli ingegneri, ossia agli esperti della qualità dell’aria esclusi dal Cts
Di errori ne sono stati commessi tanti, come è logico, in questi 24 mesi dallo scoppio dell’epidemia. Quello che più colpisce, però, è che le autorità politico-sanitarie non solo non li abbiano riconosciuti pubblicamente, ma che quasi mai li abbiano usati per correggere il tiro, cercando di non ripeterli. Alcuni errori sono stati comuni alla maggior parte dei Paesi occidentali, altri no (esempio: la Germania aveva un piano anti pandemico aggiornato, l’Italia no). Ma quale è stato l’errore più grave?
Probabilmente aver puntato tutte le carte sulla campagna vaccinale, sopravvalutandone l’efficacia e trascurando alcune cruciali misure non farmacologiche. Per lungo tempo, ad esempio, il racconto ufficiale ha sostanzialmente accreditato l’idea che i vaccinati non trasmettessero l’infezione (o lo facessero assai raramente), o che la vaccinazione di massa avrebbe potuto assicurare l’immunità di gregge. Di qui lo scarso interesse per altri tipi di intervento, primo fra tutti la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, dove – soprattutto nella stagione fredda – avviene la stragrande maggioranza dei contagi. Che questo fosse il problema, gli scienziati e gli ingegneri esperti di qualità dell’aria lo sapevano fin dall’inizio, e già nel corso del 2020 lo avevano documentato con esperimenti e pubblicazioni scientifiche: se il virus non si trasmette solo a corto raggio (con le goccioline, o droplets), ma anche a largo raggio (con l’aerosol, come fa il fumo), allora la via maestra per contenerne la diffusione non è il mero distanziamento ma è il ricambio d’aria, che si attua con i purificatori e la ventilazione meccanica controllata (Vmc).
Purtroppo, con la eccezione della Regione Marche, nessuno degli attori in campo nella gestione dell’epidemia ha voluto affrontare il problema. È accaduto così che, per ben due volte (nel 2020 e nel 2021), l’arrivo dell’autunno ci cogliesse impreparati. E tutto fa pensare che, a meno di una miracolosa estinzione del virus o della diffusione di varianti a bassissima letalità, quest’anno il film possa ripetersi per la terza volta, con la solita euforia estiva e la solita risalita dei contagi a novembre-dicembre. Ma perché il problema della messa in sicurezza degli ambienti chiusi è stato così trascurato?
Una parte della responsabilità è sicuramente dell’Oms che, a dispetto delle evidenze scientifiche disponibili fin dall’estate del 2020, ha prima negato la possibilità della trasmissione aerea (addirittura squalificandola come fake news), poi la ha ammessa come mera eventualità, e solo di recente – quando era troppo tardi – ha cominciato a prenderla sul serio. Una parte della responsabilità, tuttavia, è genuinamente nostra. Gli elementi che suggerivano la crucialità di un intervento sulla ventilazione delle aule scolastiche erano già ampiamente disponibili alla fine del 2020, tanto che altri (la città di New York, ad esempio) li avevano messi in campo, o si apprestavano a farlo (è il caso della Regione Marche).
Perché dunque né il Cts, né il ministero della Salute, né l’Istituto superiore di sanità li hanno mai presi seriamente in considerazione? Forse perché costano (da 0.5 a 2 miliardi, a seconda delle tecnologie). Ma forse anche per una ragione tanto semplice quanto disarmante: la gestione dell’epidemia è stata delegata completamente ad esperti di ambito medico, per lo più digiuni di conoscenze scientifiche al di fuori del loro ambito. Dal Cts sono stati sistematicamente esclusi non solo gli scienziati dotati degli strumenti per capire la matematica dell’epidemia, ma anche, e questo è stato ancora più nefasto, gli studiosi e gli ingegneri specializzati nel controllo della qualità dell’aria. Di qui una permanente incapacità di andare oltre la visione del mondo delle burocrazie sanitarie, più o meno arricchite dalle multiformi opinioni del circo degli esperti-sempre-in-tv.
Il risultato è che, in vista del quarto anno scolastico dallo scoppio dell’epidemia, siamo ancora una volta in ritardo. L’esperienza di chi ci ha provato suggerisce che, per attrezzare le aule scolastiche contro il contagio, tra procedure burocratiche, scelta dei macchinari, interventi edilizi, occorrono come minimo sei mesi. Se si vuole ancora fare qualcosa occorre muoversi. Adesso.