di Gaia Piccardi, nostra inviata a New York
Lo spagnolo ha battuto il norvegese Casper Ruud in quattro set (6-4, 2-6, 7-6, 6-3), in tre ore e 20 minuti. È il suo primo Grande Slam. Con questo successo diventa il più giovane numero uno del ranking nella storia.
NEW YORK – Impossibile fermare il vento del cambiamento. Spira forte dall’Hudson sul Queens in una giornata grigia di pioggia e si porta dietro l’irrefrenabile voglia di tennis di Carlos Alcaraz, il ragazzo di Murcia che va di fretta e in un pomeriggio newyorkese, a 19 anni, quattro mesi e sei giorni, si prende tutto: l’Open Usa, il primo (di molti) Slam della carriera, e la vetta del ranking mondiale, più giovane re della storia dall’introduzione della classifica Atp (correva il 23 agosto 1973). Il norvegese Casper Ruud, un altro che – vincendo – sarebbe diventato numero uno (sale al n.2), è battuto in quattro set (6-4, 2-6, 7-6, 6-3) in 3h20’ da un fenomeno assoluto, arrivato in finale a New York con nelle gambe oltre venti ore di battaglie (successi in cinque set con Cilic, Sinner e Tiafoe) ma capace di gestire stanchezza e cambi di ritmo con la maestria di un veterano, perché in una vita precedente Alcaraz doveva per forza essere un uragano o comunque un elemento delle forze della natura, in grado di scoperchiare i tetti, sovvertire l’ordine delle cose, le gerarchie precostituite, la narrazione dei fatti.
Guidato in tribuna da un bravo coach non a caso ex numero uno del mondo e vincitore Slam (Parigi 2003), Juan Carlos Ferrero, l’idolo per il quale il piccolo Carlito aveva lasciato Murcia per Villena, dove si allena, lo spagnolo che non è Rafa Nadal ma ne possiede i tratti del carattere (più la copertura del campo di Djokovic) fa la rivoluzione nel torneo che più di ogni altro si presta ai golpe (la superficie veloce livella i valori, la stanchezza di fine stagione apre a qualsiasi risultato), sotto il tetto chiuso quindi indoor, davanti a un parterre di vip assortiti venuti fino a Flushing per farsi vedere e invece costretti a vedere lui, il giovane favoloso, subito a segno nella prima grande occasione (per Ruud, dopo Parigi, era la seconda finale Slam della stagione).
Parte bene, Carlos, 6-4 con un break in avvio, giusto per far capire qui dentro chi comanda. Ma il norvegese reagisce subito, strappa il servizio all’avversario al quinto game, annulla la palla dell’immediato contro break e non si fa più riprendere (6-2), pareggiando i conti. Nel terzo Alcaraz esce dai blocchi come un centometrista (2-0) ma accusa un calo di energie, fa un passo indietro nel campo quasi fatale: Ruud prende in mano le operazioni, recupera il break, si porta avanti 5-4 dopo uno scambio che finisce con Alcaraz sdraiato a terra in cima a un palleggio furibondo, generoso come e più di Nadal, inesauribile, un capitale umano dal valore inestimabile e dal chilometraggio illimitato. Sul 6-5, con lo spagnolo al servizio, il momento chiave dell’incontro: alla sua maniera, Carlito’s way, Alcaraz annulla un primo set point per Ruud con un attacco a rete e un morbido appoggio di dritto (sì, il prodigio è dotato anche di mano sensibile), e un mortifero secondo su cui il giovanissimo pazzo si produce addirittura in un pregevole serve and volley. Poi tiene la battuta. Tie break.
E lì Alcaraz diventa imprendibile: con l’ace dell’1-0, Ruud esaurisce la sua vena da conquistatore del Grande Nord, il resto è un monologo spagnolo, complici un paio di stecche del norvegese. 7-1 (7-6). Manca l’ultimo allungo. Il quarto set, a quel punto, è poco più di una formalità: break dello spagnolo sul 4-2, poi 6-3 senza mai tremare, dritto verso la meta con un servizio vincente sul secondo match point (14 ace in totale e il 74% di prime palle in campo). Le lacrime, alla fine, sono quelle di un ragazzo che scala le tribune dell’immenso centrale di New York per abbracciare il padre e il coach (clan numeroso e tutto al maschile, a differenza di quello di Ruud, il suo: dove sono le donne della tua vita, Carlito?), un fratello maggiore più che un allenatore, la guida che gli ha aperto la strada e che, in fondo, a Jannik Sinner, battuto di un soffio nei quarti dal nuovo campione dell’Open Usa, manca perché l’ottimo Darren Cahill che da Wimbledon affianca Simone Vagnozzi non è un super coach in senso stretto, cioè ex vincitore Slam.
«L’11 settembre non è un giorno qualsiasi qui a New York, non lo sarà mai, ma io lo ricorderò per tutta la vita – dice il re bambino nel suo inglese da migliorare (in fretta) -. Questo è tutto ciò che volevo da piccolo, ho lavorato duro per ottenerlo, ho solo 19 anni e prendo tutte le decisioni non da solo, ma con i miei genitori e il mio team. Mamma non è qui, nonno nemmeno, penso a loro e ringrazio chi è venuto a vedermi dalla Spagna. Sono un po’ stanco, non potevo permettermi di esserlo troppo nella finale di uno Slam. Ma cercherò di festeggiare come questo successo merita». Gli entrano in tasca 2.600.000 dollari, gli Open Usa chiudono con il record di presenze (anche grazie al partecipatissimo addio di Serena Williams: 776.120 spettatori in due settimane, centrale da 23.859 posti sempre sold out), oltre 2 milioni di dollari da donare all’Ucraina sotto attacco della Russia e un nuovo padrone venuto da Marte per restare a lungo sulla terra. Carlos Alcaraz, l’alieno con i brufoli.
12 settembre 2022 (modifica il 12 settembre 2022 | 06:37)
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, 2022-09-12 05:22:00, Lo spagnolo ha battuto il norvegese Casper Ruud in quattro set (6-4, 2-6, 7-6, 6-3), in tre ore e 20 minuti. È il suo primo Grande Slam. Con questo successo diventa il più giovane numero uno del ranking nella storia., Gaia Piccardi, nostra inviata a New York