Alessandra Ferri: «Per amore ho fatto follie. Il divorzio  fu un grande dolore, è stata  la danza a salvarmi»

Alessandra Ferri: «Per amore ho fatto follie. Il divorzio  fu un grande dolore, è stata  la danza a salvarmi»

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di Candida Morvillo

La ballerina: da bimba portai i fiori in camerino a Carla Fracci. Finché me lo chiederanno continuerò a danzare, anche invecchiando siamo esseri splendenti

Alessandra Ferri è la ballerina italiana più famosa al mondo, è stata étoile sia al Royal Ballet di Londra sia all’American Ballet Theatre di New York. Ora è in Italia in tournée, nonostante nel suo ambiente si vada in pensione a 35 anni mentre lei di anni ne compie 59 il 6 maggio. Capelli sciolti, dolcevita nocciola, finite le prove, sembra stare tutta dentro un unico gesto più volte ripetuto nel corso della conversazione. È quello che fa con le mani, facendole roteare con grazia nell’aria come per scacciare una parola a lei molesta, eppure impossibile, nel suo caso, da evitare. La parola è «carriera» («mi chiede di ripercorrere la carriera, ma non amo questa parola…», oppure: «Ho scelto la maternità all’apice della… carriera. Possibile che non ci sia un’altra parola? Percorso? Vita artistica?»).

Perché detesta questa parola?

«Perché implica un lavoro più che una vocazione. Perché implica una certa strategia più che un sogno realizzato. Perché io sono più contenta quando lavoro che quando sto in vacanza».

Quante scarpette da danza ha consumato in 40 anni di «carriera»?

«Penso due paia al giorno per le prove e due paia per ogni spettacolo».

A spanne, trentamila?

«Non le ho mai contate… Nei Giorni felici di Beckett, da cui è tratta L’Heure Exquise che dal 14 aprile sto portando in giro per l’Italia, Winnie è sepolta in un cumulo di sabbia che sale adagio adagio, finché lei ci sparisce dentro; la mia Winnie, invece, è sommersa dalle scarpette usate, ovvero dal tempo che avanza, soffocante, ed evoca una fine vicina della vita».

La sua Winnie, che da oggi e domani è anche a Milano al Piccolo Teatro Strehler, è una ballerina âgée che vive nei ricordi dei giorni felici. Lei invece, nel 2007, disse addio al palcoscenico, ma poi è tornata. La lontananza dalla danza era insopportabile?

«I primi tre anni, mi sembrava di stare in vacanza. Poi, ho cominciato a sentirmi come se fossi chiusa in una stanza in cui si era spenta la luce. In moltissimi momenti della vita, anche in pandemia, dovermi alzare tutte le mattine e affrontare una lezione che a volte la detesti, la odi, è una disciplina che salva. Willy Burmann, il mio maestro di New York, mi diceva sempre: Alessandra, la mattina fai la doccia, vieni a lezione e, dopo, pensi. A volte, sei contentissima di farlo, ma avere avuto tanti giorni belli e tanti in cui non ne potevo più mi ha reso fortissima».

Da quando è tornata a ballare nel 2013, i maggiori coreografi hanno voluto creare da zero ruoli per lei, realizzando un repertorio adatto a una cinquantenne che prima non era mai esistito. Com’è stato possibile?

«Non avevo immaginato un secondo capitolo, invece Wayne McGregor ha creato per me il ruolo di Virginia Woolf in Woolf Work e poi Afterite, che porterò a giugno alla Scala; John Neumeier ha creato Duse ; Martha Clarke ha creato Chéri… tutti ruoli che mi rendono felice perché sono convinta che, anche invecchiando, siamo comunque esseri splendenti. Amo questa parte della mia vita artistica e di donna perché mette l’accento non sulla prestazione, che non può essere più quella dei vent’anni, ma su introspezione e conoscenza di sé. Se volessi rifare Manon, Giulietta, Carmen, sarebbe una debolezza».

Le faceva paura il ritorno in scena?

«Ero terrorizzata: se sei ferma da sei anni, il corpo non torna uguale con uno schiocco di dita. C’è una vocina dentro che dice: sei pazza, non ce la farai. L’altra vocina dice: stai zitta e fallo. In questo, la danza è uno specchio interiore: impari a distinguere la vocina della paura dalla voce del sé che dice “questa cosa va fatta, punto”. C’è la voce del corpo fisico, che è piccolo, e poi c’è la voce dell’anima, che è immensa».

Mi descrive in un’immagine la fatica della ballerina?

«Intanto, deve immaginare che noi abbiamo dolori sempre. Quando le figlie erano bambine, arrivavo a casa dopo cinque ore di prove, distrutta, e passavo il pomeriggio sdraiata».

E oggi che ha vent’anni di più?

«È più faticoso, ci sono più dolori. Da ragazza, fai colazione e via, pam! Salti. Adesso, mi servono due ore di preparazione: ho un problema alla caviglia non risolvibile e devo riscaldarla. Il mio partner sbagliò un movimento, me la ruppi e non ho più dei legamenti e della cartilagine».

E come fa a danzare?

«Mi fa male. Ma se impari a conoscere il dolore fisico, puoi superarlo».

Com’era Alessandra Ferri da bambina?

«Già a tre anni vivevo delle storie dentro di me e sentivo un’altra realtà che mi chiamava. E anche se i miei non frequentavano i teatri, dissi: voglio andare a scuola di danza. Mi hanno iscritta e per me fu subito chiaro che era la mia vita: non è che mi piaceva il tutù, non era una cosa trallallero trallalà, mi piaceva proprio lo studio, capivo che era la mia chiave per aprire la porta della libertà interiore».

Viene dalla borghesia milanese, papà ingegnere, mamma casalinga: quanto l’hanno sostenuta?

«Passeggiavo con mamma a Milano quando vidi il bando per la scuola della Scala. Nel frattempo, ci eravamo trasferiti a Monza, ma io dissi: voglio studiare lì. Ricordo la riunione familiare, attorno al tavolo della cucina. Mamma era stata maestra e aveva dovuto rinunciare al lavoro, ma teneva all’indipendenza femminile e convinse papà a farmi fare le medie alla Scala».

E quando a 15 anni fu presa al Royal Ballet di Londra?

«Ormai, avevano capito dagli insegnanti che avevo talento. Non avere i miei contro e sapere che non dovevo dimostrare a nessuno che avevo ragione mi diede un enorme sostegno. Per loro, era anche uno sforzo economico non da poco e non esistevano telefonini, ma solo un appuntamento settimanale in una cabina telefonica».

A Londra, diventerà prima ballerina.

«Fu straordinario l’incontro con Sir Kenneth McMillan, questo grandissimo coreografo che iniziò ad affidarmi ruoli importanti. Al mio esordio come prima ballerina, in Mayerling, ero nervosissima. Ricordo che salii sul palco e sentii in petto come una bolla di sapone che scoppia, una sensazione meravigliosa di connessione col pubblico che non dimenticherò mai, quel sentirsi più grandi del corpo che siamo».

Un incontro emozionante della «carriera»?

«Intanto, Mikhail Baryshnikov, che nell’85 mi portò a New York».

Anche lì, étoile.

«Mi avvicinò a Milano, dopo Il Lago dei Cigni di Franco Zeffirelli alla Scala. Mi chiese: verresti all’American Ballet Theatre? Risposi: sì, anche domani mattina. Avevo 21 anni. Nel primo spettacolo che facemmo insieme, Giselle, a Miami, vederlo provare senza sosta nonostante un grosso problema al ginocchio m’insegnò tantissimo. Poi, naturalmente, c’è stato l’incontro con Roland Petit, a Marsiglia, ballando Carmen. Con lui ci fu proprio una scintilla. Quindi, Julio Bocca: io 21 anni, lui 19 e abbiamo ballato insieme per oltre vent’anni».

Prima figlia nel 1997: quanto ci pensò prima di mettere in pausa la danza?

«Per nulla, fu una decisione d’amore, mi sono detta: sono una donna che balla e le due cose devono convivere. Sapevo che, se avessi sacrificato la danza, avrei odiato la famiglia e, se avessi sacrificato la maternità, avrei odiato la danza. Quando Emma e Matilde erano piccole, viaggiavano con me, le ho portate ovunque. Quindi, mi sono fermata, ho fatto la mamma e la moglie e, quando sono tornata a ballare, uscivamo da un periodo difficile, dalla mia separazione: riprendere a danzare è stato importante per me e per le figlie, perché hanno visto quanto conta avere indipendenza emotiva».

Il divorzio dal suo secondo marito, il fotografo Fabrizio Ferri, fu così doloroso?

«È stato uno di quei momenti in cui la danza mi ha salvata. Era stata una storia d’amore bellissima, il divorzio è arrivato inaspettato».

Vi incontraste a Pantelleria a casa di Isabella Rossellini e lì nacque il libro fotografico «Aria» che suscitò stupore per i nudi.

«Fu l’incontro di due artisti che poi si sono amati moltissimo, che hanno voluto parlarsi e conoscersi attraverso la propria arte. Nacque prima l’idea del libro e, mentre lo realizzavamo, l’amore».

Finiste in cronaca rosa anche per la separazione che ne conseguì dal suo primo marito. Scrissero che lui la chiuse a chiave fuori casa o che prese a sassate il loft di Fabrizio. Era vero?

«Diciamo che, fu un tale colpo di fulmine che lui non la prese bene. Lo capisco. Tutte le storie, finendo, hanno momenti difficili, melodrammatici. Si fanno follie per amore e per dolore».

Lei che follie ha fatto?

«Viaggi per vedere Fabrizio per poche ore».

Ora, è innamorata?

«Della vita, quello sì. Mi eccito quando posso dire: wow, la vita continua. Quattro anni fa, ho deciso di lasciare New York e, in un mese, ero a Londra: ci sto bene, sono più vicina alle figlie, che vivono a Milano. Matilde ha 24 anni e si occupa di moda e pubblicità, Emma ne ha 20 e studia Scienze Enogastronomiche».

Tornerà a vivere in Italia?

«Prima o poi, credo di sì. Gli affetti sono qui».

Al «Gala Fracci» il 9 aprile alla Scala, c’era anche lei. Che rapporto ha avuto con l’étoile mancata un anno fa?

«Ho fatto un estratto di Exquise, che fu creato per lei da Maurice Béjart. La prima volta che vidi Carla, ero una bimba della scuola di ballo che le portava un mazzolino di fiori in camerino. Per me, è stata un’icona. Più avanti, abbiamo diviso il palco, mi ha dato consigli. Una volta, mi disse: mi dicono sempre che sono dura, ma bisogna essere così o ti rivoltano come una bistecca. Aveva ragione: è verissimo».

Lei fino a quando ballerà?

«Io, a ogni richiesta che arriva anche per gli anni a venire, rispondo: sì, va bene».

20 aprile 2022 (modifica il 20 aprile 2022 | 22:15)

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, 2022-04-20 22:31:00, La ballerina: da bimba portai i fiori in camerino a Carla Fracci. Finché me lo chiederanno continuerò a danzare, anche invecchiando siamo esseri splendenti, Candida Morvillo

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