Alfonso Andria lascia il Pd: «È un partito padronale e la malattia è il deluchismo»

Alfonso Andria lascia il Pd: «È un partito padronale e la malattia è il deluchismo»

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l’intervista Mezzogiorno, 19 agosto 2022 – 08:13 Lo sfogo dell’ex europarlamentare e senatore di Salerno: «I suoi uomini falsificarono anche la firma di mia moglie» di Angelo Agrippa La lettera con la quale ha lasciato il Pd, dopo esserne stato fondatore, l’ha consegnata di persona, con la tessera tagliata a metà, come si fa con le carte di credito scadute, al segretario provinciale Enzo Luciano e in copia l’ha spedita a quello nazionale Enrico Letta, al commissario regionale Francesco Boccia e alla presidente provinciale Federica Fortino. «Il ripiegamento del partito a Salerno — ha scritto — e nella sua vastissima provincia entro logiche padronali, il ricorso continuo a metodi assolutamente opposti ai principi ispiratori del Pd pur di affermare un’egemonia, spesso basata sull’esercizio muscolare, di fatto ne mortificano la funzione e la natura, fino a contraddire la sua stessa denominazione. La fase tuttora in corso dei ritocchi alla compilazione delle liste a livello nazionale – caratterizzata dalle vicende disinvolte delle ultime ore e perciò ancor più imbarazzanti- rendono l’idea non di un partito politico ma di un edificio dalle porte girevoli del quale servirsi a seconda delle convenienze. Per me basta cosi!». Alfonso Andria, lei è stato deputato europeo e nazionale del Pd. E prima ancora presidente della Provincia di Salerno con il Ppi, quando Vincenzo De Luca era sindaco dei Ds. Una rivalità storica tra voi, ma ora qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? «Sono stato un militante assiduo, sono dieci anni che sono fuori da ogni incarico o partita elettorale. Certo, anche critico ma sempre disciplinato, poiché al momento del voto occorre senso di responsabilità ed io ho sempre fatto squadra, a differenza di altri. Vedere il mio partito sotto il tacco di logiche padronali e familistiche, è troppo. Ciò che sento e vedo in queste ore, con candidati che vanno e vengono, cancellati e sostituiti, non si può digerire». Si è sentito emarginato? «Si pretende che si debbano battere le mani per far piacere al conducente e nello stesso tempo si viene considerati nemici e guardati a debita distanza come appestati. Le racconto un aneddoto: nel 2019 bisognava inviare due o tre delegati all’assemblea nazionale del partito. Niente di straordinario. Ebbene, io e mia moglie arrivammo con leggero ritardo al partito di Salerno, ma i manovratori, non conoscendo il cognome della mia consorte, avevano già agito: trovai il rigo con il riferimento alle generalità di mia moglie, Anna Apicella, già siglato, come se avesse votato». E lei se l’è tenuto? Chi erano i manovratori? «Gli uomini di De Luca: un gruppo di persone che h 24 esegue, ultra petita , i desiderata del presidente della Regione e ora padrone del partito e di ogni cosa si muova in Campania. Spesso con la spietata determinazione di essere più realisti del re per giovarsi, secondo loro, della benevolenza del capo. Ma mi chiedo: a cosa serve tutto questo, se De Luca già gestisce tutto lui?». Però lei ha continuato ad essere un iscritto del Pd. Perché? «Quando si fa parte di una comunità alla quale si è dato tanto e si è ricevuto tanto si è portati ad andare oltre le beghe. Pensi che fui eletto al parlamento europeo con 180 mila preferenze, 25 mila più di D’Alema, ed i miei concittadini ancora oggi, se mi incontrano per strada, mi onorano, emozionandomi sempre, della loro affettuosa simpatia». Qualcuno insinua che lei avrebbe strappato la tessera del Pd perché il suo ex genero Federico Conte sarebbe stato indotto a ritirare la candidatura dopo il presunto veto di De Luca. «È una bassezza inqualificabile. Ed il primo a sostenere che non c’entra nulla questa storia con la mia decisione dovrebbe essere De Luca in persona». Lei, da presidente della Provincia, è stato l’antagonista diretto dell’allora sindaco De Luca. I vostri rapporti già allora facevano scintille? «Io, la rivalità non l’ho mai cercata: il solipsismo non mi appartiene. Anzi, ho sempre agito con spirito di collaborazione. Ed abbiamo realizzato tante cose assieme, anche se lui pretendeva che fosse riconosciuta comunque l’egemonia del Comune. Insomma, non ho mai dato fastidio. Ho portato solo voti al partito e le uniche due volte in cui non sono stato eletto è perché sono stato fatto fuori. L’ultima volta, in pieno sultanato vigente, avrei dovuto chiedere la ricandidatura a De Luca. Ma ho preferito rinunciare». Mentre ora cosa l’ha irritata? «Il mercato delle vacche. Gente che da destra passa a sinistra. E con le liste chiuse in direzione provinciale si continua a cancellare e a sostituire i candidati. Si era detto che i consiglieri regionali non dovevano candidarsi, mentre i sindaci sì. Invece leggo che i consiglieri regionali occupano posizioni di vantaggio. Esempio: Fulvio Bonavitacola, con il quale abbiamo condiviso tanta esperienza, si dimise da deputato per fare il vice presidente della Regione. Ora è di nuovo candidato alla Camera. Ma la politica cosa è diventata, un albergo ad ore? Altro caso: Piero De Luca ha diritto a ricandidarsi? Certo, è uscente. Ma a Caserta, dove fu eletto, non a Salerno, dove fu bocciato». Scusi, ma è tutta colpa di De Luca o in parte anche di chi non reagisce? «Il deluchismo è una patologia diffusa. Pensi che a volte, durante le poche riunioni convocate al partito, ho preso la parola in piena solitudine per esprimere delle perplessità. All’uscita, c’è stato sempre chi mi ha avvicinato per testimoniarmi il suo sostegno. Ed io che ho puntualmente risposto: se sei d’accordo con me, perché non intervieni?». E la risposta? «Imbarazzo, spallucce e sguardo inchiodato a terra». La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 19 agosto 2022 | 08:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-08-19 08:55:00, Lo sfogo dell’ex europarlamentare e senatore di Salerno: «I suoi uomini falsificarono anche la firma di mia moglie»,

Pietro Guerra

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