di Gian Antonio Stella
La data scelta per la giornata degli Alpini legata al fascismo – ed troppo vicina al 27 gennaio
Quel giorno del 26 gennaio 1943 quando a Nikolajewka migliaia di penne nere riuscirono a rompere l’assedio dei sovietici uscendo dalla sacca del Don per mettersi in marcia nella bufera russa verso casa, il sottotenente degli alpini Mario Jacchia non c’era.
Era orgogliosissimo della divisa e del cappello, si era arruolato nella Grande Guerra sventolando il tricolore, era un eroe premiato dall’Italia con due medaglie d’argento, una di bronzo, una croce di guerra al valor militare, ma non c’era.
Era ebreo.
E nel ‘38, per le Leggi razziali, era stato espulso e umiliato da quel Corpo che per anni era stato la sua vita. Di pi: Mario non c’era, l a Nikolajewka, ottant’anni fa, perch mentre Mussolini iniziava a schiantarsi sulle spacconate urlate l’anno prima in piazza Venezia (I soldati italiani hanno sostenuto la prova del freddo fino a 41 sotto zero meglio dei soldati tedeschi e hanno combattuto a Natale massacrando quattro divisioni bolsceviche a 21 sotto zero!), lui stava prendendo contatto, come scriver Ferruccio Parri nel suo elogio, con la Resistenza clandestina per organizzare le primissime squadre partigiane.
Una scelta che nell’agosto 1944 avrebbe pagato cara. Morendo a Parma sotto le feroci torture dei nazisti ai quali era stato consegnato dai repubblichini. Una fine orrenda, che gli meriter una quinta medaglia. D’oro.
Il contributo tradito
Non fu l’unico, l’alpino Mario Jacchia, a essere tradito dall’Italia. E se la novella Salomon l’alpino l’ebreo scritta anni fa da Giorgio Visentin (penna nera premiata dalla stessa A.N.A.) era ispirata a vari racconti di guerra e di montagna ma senza un preciso riferimento storico, la presenza di molti ebrei nella nostra storia, a partire dal Risorgimento, certa e documentata.
Lo dicono le decine di nomi ebraici incisi nel marmo del muto e imponente sacrario di Redipuglia. Lo dice la lunga lista di Jacchia pubblicata nel libro Il contributo militare degli ebrei italiani alla Grande Guerra di Pierluigi Briganti: Jacchia Aldo, di Aronne, Torino 16/01/1892, Sottotenente, Artiglieria. – Jacchia Decio, di Sabatino, Lugo 14/01/1879, Sottotenente, Fanteria. – Jacchia Ermes, di Ezio, 14/10/1899, Sottotenente, Bersaglieri…. Lo spiega ne I soldati ebrei di Mussolini lo storico Giovanni Cecini: Carlo Alberto di Savoia, a latere della concessione dell’omonimo Statuto costituzionale, allarg la base dei diritti civili e politici anche ai sudditi israeliti del proprio piccolo regno. (…) Molti erano stati gli ebrei che, affascinati dalla figura di Giuseppe Mazzini, avrebbero poi continuato il proprio percorso patriottico sotto le insegne dei Savoia.
L’ammissione dei maschi di religione ebraica all’uso delle armi nel 1847, conferma in Ebrei e Forze armate lo storico militare Marco Mondini, fu un provvedimento ben pi dirompente della semplice ammissione ad un apparato pubblico. Integrare gli ebrei all’interno delle Forze Armate, garantire loro l’onere e l’onore di servire al pari d’ogni altro cittadino o suddito, nella collettivit in armi, era (…) l’infrazione di un tab plurisecolare e il riconoscimento, in primo luogo sul piano simbolico, dell’uguaglianza degli ebrei dal punto di vista dell’identit individuale (…) come parte integrante della famiglia nazionale.
Una svolta a livello europeo. Vissuta dalla comunit con grande partecipazione. Erano uno su mille, gli ebrei italiani. Uno su cento gli ufficiali del regno. Per non dire di certe punte d’eccellenza. Sono quattordici, oggi, gli Jacchia sulle Pagine Bianche. Pochi meno di quanti vestirono la divisa prima d’esser buttati fuori come tutti gli ebrei non solo dalle Forze Armate (liquidati con un’indennit modestissima o una piccola pensione se avevano oltre 10 anni d’anzianit, come provano gli studi di Giorgio Fabre e Annalisa Capristo) ma perfino dal Club Alpino Italiano.
Che solo questo pomeriggio (sbalorditivo!), dopo 84 anni senza aver mai chiesto perdono salvo locali eccezioni, consegner alla Comunit ebraica di Roma e agli eredi di quanti furono espulsi le tessere Cai alla memoria. Figlie d’un percorso d’autocritica, riflessione storica e rielaborazione etica.
La decisione sbagliata
Riflessione storica purtroppo monca l’anno scorso quando, nonostante i vertici degli stessi alpini si fossero dichiarati disponibili a scegliere date diverse come il 15 ottobre compleanno del Corpo fondato nel 1872 o una delle ricorrenze in cui le penne nere si sono eroicamente guadagnate l’ammirazione di milioni di italiani correndo per primi a soccorrere le popolazioni dopo tante catastrofi, il Senato scelse appunto come Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini il 26 gennaio.
Scelta votata quasi all’unanimit (una sola astensione) e troppo tardi contestata da parte della sinistra. Favorevole a sua insaputa finch non intervenne, su Oggi e sul Corriere, Liliana Segre: Quando il Senato ha approvato l’istituzione di questa Giornata, purtroppo ero assente per il Covid. Se ci fossi stata, avrei detto che proprio per l’affetto che porto agli Alpini quella data sbagliata. vero che nella battaglia di Nikolajewka, in cui si affrontarono le truppe sovietiche e quelle italiane e tedesche in ripiegamento, il sacrificio degli Alpini fece s che almeno una piccola parte delle forze del Regio esercito rientrasse in patria. Ma fu un’impresa onorevole nel contesto di una guerra disonorevole voluta dal fascismo: l’invasione di uno Stato sovrano, allora l’Urss, al fianco della Germania nazista. Inoltre si arriverebbe al paradosso di ricordare il 26 gennaio una battaglia dell’esercito nazifascista e il 27 gennaio le vittime della Shoah.
Esattamente come accade gioved e venerd.
Parole esemplari. Totalmente condivise, tra gli altri, da quel maestro Bepi De Marzi che, alpino e autore di Signore delle cime, ha scritto l’amatissima Nikolajewka.
La trappola in Russia
In Russia c’erano alpini giovanissimi partiti volontari e troppo tardi consapevoli della trappola in cui li aveva cacciati l’avventurismo fascista, poveracci rastrellati come Giuann che tormentava il sergente nella neve chiedendo Sergentmagi, ghe rivarem a baita?, borghesi di mezz’et come il grande Bepo Novello che gi s’era guadagnato due medaglie nel ‘15-‘18 (Non andai io a cercarle le guerre: mi trovarono loro, con la cartolina precetto) eppure, scriver Mario Rigoni Stern, il 26 gennaio 1943 venne con noi all’assalto senza gesti retorici o parole inutili; con un fucile, da semplice alpino e non da capitano. E poi nei lager tedeschi pat fame e miserie per non mettere una firma di adesione sotto un noto foglietto.
Antifascista vero. Men che mai complice al fianco dei nazisti che, come avrebbe ricordato tra gli altri Nuto Revelli, facevano mattanze di ebrei russi.
In condizioni diverse, forse, chiss, avrebbe potuto essere tra quegli alpini in Russia anche il nostro Mario Jacchia, che nella scia dell’irredentismo familiare non era stato sulle prime antifascista, come vari ebrei, finch le camicie nere nel gennaio ‘25 gli avevano devastato lo studio di avvocato a Bologna costringendolo a difendersi sparando? Mah… Certo fu tra i primi alpini a prender le armi fino a diventare, col nome di battaglia Rossini, un comandante di Giustizia e Libert.
L’ultimo a vederlo vivo dopo la cattura, ricorda Liliana Picciotto che da anni studia il destino dei deportati ad Auschwitz (dove pareva che Jacchia fosse finito), fu Giorgio Amendola: Il 3 agosto 1944 era a Parma per un giro di ricognizione sulla situazione della Resistenza emiliana. Arrestato perch sospetto di attivit antifascista, fu portato al comando tedesco e interrogato. Scriver in Lettere a Milano: “Chi sub un terribile trattamento fu Jacchia che vidi riportare in basso dopo gli interrogatori, sempre pi dolorante. L’ultima volta era trascinato gi per le scale perch non si reggeva in piedi. Poi non lo vidi pi”.
Il corpo fu fatto sparire.
24 gennaio 2023 (modifica il 24 gennaio 2023 | 21:49)
© RIPRODUZIONE RISERVATA