Il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità, in via preliminare, il disegno di legge di Roberto Calderoli sull’autonomia differenziata che definisce la cornice entro la quale le Regioni potranno, in futuro, chiedere allo Stato il trasferimento delle funzioni e competenze definite dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Il disegno di legge ora inizierà un lungo cammino verso la sua attuazione: il testo passerà prima alla Conferenza unificata per un parere che dovrebbe arrivare in tre settimane e, se non subirà modifiche, tornerà in Consiglio dei Ministri per l’approvazione definitiva. Dopo l’approvazione del governo poi, il testo andrà al Parlamento per l’approvazione consueta. Nel frattempo, verrà istituita una Cabina di regia per stabilire i Livelli Essenziali di Prestazione (Lep) entro la fine del 2023. Una volta definiti i Lep, il Consiglio dei ministri emetterà poi un Dpcm che dovrà passare attraverso la Conferenza unificata e il Parlamento prima di essere valutato dai ministeri competenti e negoziato con le Regioni. L’intesa definitiva sarà siglata da Palazzo Chigi e poi approvata dalla singola Regione prima dell’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri. Insomma: siamo solo all’inizio del percorso.
Intanto il ddl di Calderoli è stato fortemente criticato da più parti, partendo dai sindacati, fino ad arrivare ad economisti e sociologi. Contestati in particolar modo gli aspetti tecnici, ma anche i possibili effetti sociali estremamente negativi e ritenuti in grado di aumentare le disuguaglianze a livello inter-regionale e spaccare in due il Paese. Ma la bozza relativa all’autonomia differenziata parla chiaro: “”Non si vuole dividere il Paese, né favorire Regioni che già viaggiano a velocità diversa rispetto alle aree più deboli dell’Italia“, si legge infatti nella premessa chiave. L’auspicio espresso è che tutte le Regioni possano invece aumentare la propria velocità grazie a una riforma che può rappresentare “una svolta rispetto ai vincoli che attualmente impediscono il pieno soddisfacimento dei diritti a livello territoriale e la valorizzazione delle potenzialità proprie delle autonomie territoriali“. Cerchiamo di capire.
Intanto: cos’è esattamente l’autonomia differenziata? Altro non è che il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e in tre casi di materie di competenza esclusiva dello Stato. Insieme alle competenze, le regioni possono anche trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive. Le materie di legislazione concorrente comprendono i rapporti internazionali e con l’Unione europea, il commercio con l’estero, la tutela e sicurezza del lavoro, l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile, il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la comunicazione, l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Il pericolo che molti vedono nell’autonomia differenziata è un ulteriore ampliamento dei divari territoriali (tra Nord e Sud, tra aree interne e centri urbani, tra periferie e città), già oggi molto evidenti. Pensiamo infatti che, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children, a fronte di una dispersione scolastica nazionale media del 12,7%, la Sicilia raggiunge il 21,1% e la Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, vicino all’obiettivo europeo del 9% entro il 2030. “Per quel che sappiamo finora, non ci sembra che il progetto di autonomia differenziata segua la logica perequativa indicata dall’articolo 3 comma 2 della Costituzione. Cioè dare di più a chi parte con meno”, ha dichiarato all’Avvenire il presidente dell’impresa sociale Con i bambini, Marco Rossi Doria. “Siamo molto preoccupati – ha aggiunto -. Il governo dica chiaramente che non si prenderà in considerazione la spesa storica, ma la reale condizione delle persone. E questa è una questione che non riguarda soltanto la scuola, ma investe tutti gli aspetti della vita: la spesa sociale dei Comuni è molto diversa a seconda dei territori. L’Italia è lunga e complessa: bisogna fare prima la mappa delle perequazioni e poi ragionare sugli assetti. Se, invece, si fa il contrario si rischia di aumentare i divari e proteggere sempre gli stessi”.
“Il sistema di istruzione deve essere nazionale e pubblico. Certamente con il concorso di organismi statali e paritari, ma la regia deve restare in capo allo Stato”, ha commentato anche Ivana Barbacci, segretaria generale Cisl Scuola.
“Lanciamo un allarme a tutti i cittadini e le cittadine di questo Paese – ha aggiunto Francesco Sinopoli, FLC Cgil – : regionalizzare l’amministrazione, gli organici, lo stipendio del personale della scuola, significa attaccare il ruolo unificante dei contratti nazionali di lavoro, ma, soprattutto, significa frammentare il diritto all’istruzione che deve essere garantito a tutte e tutti a prescindere dal luogo in cui sono nati. L’autonomia produrrà marcate differenze regionali sulla base delle diverse possibilità di spesa dei territori, differenze relative alla professionalità dei docenti, al loro contratto di lavoro, al loro salario, alla mobilità e al reclutamento ma, ancora più grave, differenze nell’offerta formativa per studentesse e studenti. Siamo di fronte – prosegue il dirigente sindacale – a una colossale mistificazione dei reali problemi della scuola. Il governo sposta il dibattito sul dove migliorare la scuola perché in realtà non intende investire da nessuna parte! La realtà è che bisogna colmare le differenze che ci sono non solo tra Nord e Sud, ma anche tra centri e periferie e investire in tutto il Paese su tempo scuola, dotazione e stabilità di docenti e personale ATA, insomma qualificare un’offerta formativa completa per tutti per unire l’Italia e renderla competitiva”.
In ambito scolastico, secondo quanto dichiarato poi dalla sociologia Chiara Saraceno a La Stampa – non sarebbe “possibile lasciare l’attuazione del compito costituzionale della scuola alle diverse disponibilità e scelte locali”, perché già ora “esiste una differenziazione ingiusta delle risorse educative pubbliche offerte sul territorio nazionale, non solo tra regioni, ma anche all’interno delle stesse regioni e città”. Differenze che “si sovrappongono alle diseguaglianze sociali e di contesto, invece di compensarle”.
“L’autonomia differenziata – spiega invece la relazione illustrativa al provvedimento – può rappresentare una svolta rispetto ai vincoli che attualmente impediscono il pieno soddisfacimento dei diritti a livello territoriale e la valorizzazione delle potenzialità proprie delle autonomie territoriali”.
L’autonomia differenziata “migliorerà” il Paese e “conviene a tutti, i comuni del centro e del sud ci guadagnerebbero di più“, assicura Matteo Salvini. “Le Regioni avranno più risorse e più poteri con l’autonomia, per gestire i servizi essenziali per i cittadini, a partire naturalmente dalla sanità – è il commento di Silvio Berlusconi -. Ogni anno 200mila cittadini raggiungono la Lombardia da altre Regioni per interventi chirurgici. Quindi, dobbiamo garantire a tutti una sanità di assoluta qualità”.
Sicuro è che uno sguardo oltre confine forse può aiutarci: non a risolvere il problema importando modelli, ma quanto meno a riflettere.
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