Bakhmut, «Viviamo con la morte»: storia del soldato ucraino ferito Illias

di Lorenzo Cremonesi

Ventinove anni, ferito al fronte, ha perso conoscenza in trincea. L’inviato del Corriere lo aveva incontrato il 21 giugno. Lo ritrova ora, convalescente ma ancora grave, all’ospedale di Kiev

Non credo potremo mai capirlo. Né lui, del resto, se la prende troppo quando si rende conto di non riuscire a dire tutto, di non potere comunicare la paura e la rassegnazione del morire giovane: 29 anni non ancora compiuti, nel pieno delle forze…

«La mattina presto del 7 ottobre eravamo in 25 soldati del 109esimo battaglione fanteria inquadrati nella 104esima brigata operante a Bakhmut dal 20 giugno. L’artiglieria russa stavano martellando forte. Sin dalla sera precedente avevamo ricevuto l’ordine di recuperare i cadaveri dei nostri compagni tra i boschetti delle periferie. Ma i nemici ci avevano individuato: un lavoro difficile, rallentati dal peso dei morti eravamo obbiettivi lenti. Ad un certo punto giunse l’ordine di ripararci nelle cantine della Fabbrica dell’Asfalto, vi trovammo alcuni feriti e cassette di munizioni con proiettili pesanti. Fu allora che scoppiò l’inferno: un tank nemico sparò direttamente attraverso la porta, ho visto subito almeno 5 compagni morire, tutti noi eravamo feriti gravi, venni investito da un fumo oleoso, non riuscivo a respirare. Mi resi conto che la parte destra del mio corpo era ferita: avevo quasi perso due dita della mano, la gamba non si muoveva, il costato sanguinava copiosamente. Mi dissero che le schegge avevano perforato un polmone. Mi trascinai fuori e in una trincea persi conoscenza, non credevo che l’avrei ripresa. Mi risvegliai nell’ospedale sotto attacco, ma ero felice tra le coperte bianche».

Illias l’avevamo incontrato il 21 giugno con tre suoi commilitoni nella piazza di Bakhmut, una delle roccaforti ucraine che sin ad oggi si trova sulla direttiva principale degli attacchi russi. Alto, magro, la barba curata, incuriosivano la sua aria intellettuale, la pipa, il sorriso triste e intelligente. Sul giubbotto antiproiettile aveva scritto «memento mori» e appena sotto era disegnato a penna uno scheletro, simile a quelli che si vedono nelle Danze Macabre delle chiese medioevali.

«Qui la morte resta sempre con noi, ne parliamo nelle trincee. Quasi tutti chiedono che, se succede a loro, siano i compagni e non i portavoce dell’esercito a notificare le famiglie», aveva detto. In tutti questi mesi siamo rimasti in contatto. A fine luglio Illias raccontava entusiasta dell’arrivo delle armi americane, che stavano cambiando l’esito della battaglia. «Finalmente possiamo rispondere ai colpi russi con armi accurate, adesso le nostre sparano più lontano delle loro, siamo meno numerosi, ma per la prima volta capisco che possiamo vincere», annotava. Poi però per ben tre volte i nostri appuntamenti a Bakhmut erano falliti. «Non posso uscire dalla trincea, è il posto peggiore che abbia mai visto», diceva a fine settembre. Poi da ottobre era calato il silenzio. Non rispondeva più. Sino al suo breve messaggio il 29 ottobre: «Sono ferito grave ma in lenta guarigione, non posso camminare, vieni a trovarmi all’ospedale di Kiev». Ci siamo incontrati, era solo, si sta lasciando con la fidanzata, parlava dei compagni caduti, vorrebbe subito tornare al fronte da quelli ancora in vita…«Solo loro sanno cosa vuol dire».

2 novembre 2022 (modifica il 2 novembre 2022 | 23:27)

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