Il bao sappiamo tutti cos’è, anche se non lo immaginiamo. In quella incessante moda che ha condizionato i nostri gusti spingendoci mensilmente al “sushi”, il bao è il nostro antipasto, è l’apertura: è il raviolo. La parola cinese che lo indica, però, nasconde una meravigliosa forbice: perché se da un lato si tratta del più comune e riconoscibile pasto cinese, dall’altro significa anche “piccolo tesoro”.
In questo Bao riusciva a essere la storia di un raviolo al vapore che prende vita tra le mani della signora che lo sta preparando, diventando una piccola creatura della quale prendersi cura. Un piccolo tesoro che appare tra le paffute dita di una cuoca, che all’improvviso si ritrova condizionata dal fatto di doversene curare come se fosse un figlio.
Perché è lì che Bao vuole andare a colpire. Il raviolo viene così farcito, in una delicata allegoria che permette alla protagonista di nutrire la propria creatura, di dedicarsi a esso in maniera viscerale. Allo stesso modo, però, se abbiamo imparato ad amare questa prelibatezza nella sua forma più affettuosa, dall’altro lato bisognerà sapere che qualunque essere antropomorfico andrà ad acquisire tutte le caratteristiche di un umano. L’adolescenza prende il sopravvento e finisce per rendere il raviolo scostante, desideroso di distaccarsi dalla sua genitrice, anelando la totale libertà e la fuga dalla cucina domestica. C’è tanta psicologia, per niente spicciola, nel racconto che imbelletta la regista asiatica, che non si lascia andare alla superficialità praticamente mai, non va nemmeno a esacerbare il tema a volte smielato del rapporto materno.
Bao è una storia di grande delicatezza che nasconde nella sua allegoria del cibo un significato che trascende quella che può essere la visione superficiale della vicenda raccontata, ossia un rapporto affettivo con ciò che si è cucinato. Siamo liberi di poterlo credere, perché è ciò che vediamo, ma il sottotesto che ci propone il piccolo raviolo e il suo rapporto con la propria cuoca mette in scena il rapporto tra madre e figlio, di un neonato che si deve relazionare solo attraverso il cibo: non a caso il raviolo finisce per essere farcito, ma per lui è una alimentazione a tutti gli effetti.
Seppur la nostra memoria non ci permetta di ricordare quei momenti, dei quali non abbiamo nemmeno la più flebile immagine registrata nella nostra mente, il senso di nostalgia di quel viaggio verso il ritorno, ci permea e ci fa sentire parte di un qualcosa. Quel qualcosa che ci vuole raccontare Bao. La relazione va vissuta anche dall’altro lato, però, conducendoci a quella condizione che vive una madre nel momento in cui il proprio figlio decide di abbandonarla, o comunque di seguire la propria strada. Un percorso naturale, fisiologico, che se volessimo appenderci alle statistiche europee dovrebbe avvenire poco prima dei vent’anni.
La sindrome nota in psicologia come “da nido vuoto”, ossia la malinconia, che si contrappone in questo caso alla nostalgia, nel vedere la propria dimora svuotata del pargolo oramai cresciuto e che l’ha occupata per più di dieci anni. L’avere dinanzi a sé la figura del figlio che si incammina da solo verso l’esterno genera questa dinamica in un genitore che finisce per non accettare mai ciò che sta accadendo, rinnegando il distacco.
Bao offre così una duplice versione della sua storia, creando un delta nel quale possiamo andare a infilarci noi, che viviamo e che potremmo empatizzare con ciò che succede alla protagonista del cortometraggio, ma che possiamo ben comprendere, anche se con una venatura egoistica, quello che è accaduto al giovane raviolo. C’è il desiderio di permearsi di affetto, di esserne fagocitati, per colmare un senso di vuoto generato da un alimento che in realtà, nel momento in cui prende vita, diventa un figlio. Un novello Pinocchio, venuto al mondo col desiderio di autoaffermarzione.
Il linguaggio utilizzato nell’opera prima di Shi era sicuramente più votato a un piccolo adulto in grado di comprendere determinate questioni che appartengono a una maturità visiva maggiore di quella ancora troppo puerile di un adolescente, non in grado di carpire quel sottotesto di cui abbiamo parlato poc’anzi.
Questo non per dire che la regista affronta le tematiche forti con un fare altrettanto serioso, ma per spiegare che se in Red dovessimo trovare una storia più matura e meno adolescenziale, meno aperta a un piccolo giovane, non dobbiamo spaventarci: è quello che la cineasta ha perseguito nel suo primo lavoro e che siamo sicuri continuerà a fare nel resto della sua carriera. D’altronde, come Walt Disney ha sempre voluto sottolineare: non si è mai trattato solo di cartoni animati.
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