di Giuseppe Sarcina
L’ex presidente farà l’annuncio a giorni. Ma i candidati di Trump faticano e nel partito si ragiona su chi può fermare The Don: il favorito sembra il governatore della Florida Ron DeSantis
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON — La prima considerazione che si può ricavare, sia pure con i conteggi ancora in corso, è che il partito democratico ha perso, ma non è stato travolto. Joe Biden esce, come era previsto, ammaccato dalle elezioni: dovrà negoziare con l’opposizione nel Congresso. Ma il presidente non è stato «umiliato», come aveva sperato Trump. La conseguenza politica più logica è che Biden potrà ora proseguire con la sua strategia su due livelli. Da una parte dovrà cercare con più convinzione un accordo con il settore moderato dei repubblicani sulle priorità del Paese: inflazione, energia, climate change, aiuti all’Ucraina. Dall’altra potrà uscire allo scoperto, ricandidandosi per il 2024, tacitando gli altri pretendenti centristi.
Paradossalmente il quadro potrebbe essere più confuso nel campo dei vincitori. Scorrendo la mappa dei distretti sembra che i candidati trumpiani non abbiano fatto il pieno. Anzi, soprattutto alla Camera, molti concorrenti estremisti sono stati sconfitti negli Stati in bilico, come in Ohio e in Pennsylvania. Possiamo immaginare che tutto ciò non cambierà i piani di Donald Trump. Il 15 novembre annuncerà la sua candidatura per la Casa Bianca . La terza consecutiva. Una notizia data già per acquisita nella cittadella politica di Washington. Toccherà ai vertici parlamentari del partito repubblicano decidere come gestire la possibile maggioranza alla Camera: due anni di attacchi incessanti, di inchieste parlamentari contro Biden? Oppure una legislatura produttiva, per dimostrare al Paese che i repubblicani governano meglio dei democratici? La prima linea è quella di Trump; la seconda esiste sulla carta, ma non ha ancora un leader riconoscibile.
Nel mondo conservatore si sta sviluppando da mesi un confronto, talvolta anche ruvido e che, per molti versi, ricorda la dinamica del 2016. All’epoca l’establishment repubblicano provò ad arginare la tumultuosa ascesa dell’ex costruttore newyorkese. Ma non fu in grado di convergere su un unico candidato. I senatori Marco Rubio (Florida) e Ted Cruz (Texas) vollero restare in gara fino all’ultimo. Trump li surclassò a uno a uno. Oggi si ripropone lo stesso tema. I vertici washingtoniani del Gop, il «Great Old Party», stanno ragionando su chi potrebbe bloccare il ritorno di The Donald. Il numero uno dei senatori Mitch McConnell, l’ex vice presidente Mike Pence e altri lo considerano se non «un golpista», come pensano i democratici, sicuramente una figura ancora più tossica e divisiva per il Paese di quanto fosse otto o quattro anni fa. Il problema è che, oggi come allora, si sta rivelando difficile costruire un blocco compatto anti-Trump. Eppure ci sarebbero i margini politici e sociali per tentare la manovra. L’ultimo sondaggio commissionato dalla tv Nbc mostra come il 62% degli elettori repubblicani non si identifichi necessariamente con Trump. Nel gennaio 2021, questa percentuale era pari solo al 46%.
Ci sarebbe anche il leader alternativo: il governatore della Florida Ron DeSantis, 44 anni, iper conservatore, rigido anti abortista, in grado, sulla carta, di ereditare i voti della base trumpiana. DeSantis, ha vinto a mani basse in Florida, ottenendo la riconferma a governatore. Sarà lui il «federatore» di una coalizione anti-Trump? L’ex presidente ha già fiutato il rischio, affibbiandogli un nomignolo dispregiativo: «Sanctimonious», ipocrita, baciapile.
Gli altri potenziali concorrenti, però, dovrebbero fare un passo indietro. La lista è lunga: lo stesso Pence, ancora Rubio, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, l’ex ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley. Ma c’è un’altra variante che potrebbe giocare a favore di Trump. Nelle prossime settimane l’Attorney General, Merrick Garland, dovrebbe incriminare l’ex presidente in relazione ai documenti classificati, illegalmente custoditi nella residenza di Mar-a-Lago. Trump ha già fatto sapere che chiamerebbe alla mobilitazione la sua base. I parlamentari trumpiani che potrebbero presiedere le Commissioni giudiziarie, cioè il deputato Jim Jordan e il senatore Ron Johnson, hanno già fatto sapere che indagheranno sull’Fbi e sul Dipartimento di giustizia. Come si regoleranno gli altri repubblicani? Probabilmente si adegueranno per non dare un vantaggio ai democratici. A quel punto, però, sarebbe più complicato spiegare agli elettori perché l’ex presidente non sia adatto per governare il Paese. Complicato, ma non impossibile, specie se l’inchiesta sul 6 gennaio si dovesse concludere con il rinvio a giudizio di Trump.
9 novembre 2022 (modifica il 9 novembre 2022 | 11:16)
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