Ieri è uscita la notizia della promozione di alcuni bulli che hanno vessato per un intero anno scolastico una studentessa, chiamandola “ebola”, rendendola protagonista di una chat WhatsApp dell’odio e vittima di stalking e istigandola al suicidio.
Si è saputo anche che i genitori di questi bulli si sarebbero rifiutati di inserire i propri figli in percorsi rieducativi su base volontaria. A commentare la questione è stata la giornalista e docente Laura Eduati nelle pagine de La Stampa.
Secondo Eduati la scuola ha reagito bene all’accaduto: “La tentazione di bocciare un bullo è fortissima. Invece di far ripetere l’anno agli aguzzini, dirigente e professori hanno preferito scommettere sul proprio ruolo di educatori convocando vittima e bulli, famiglie ed esperti, tutti insieme”.
“Ai docenti viene sempre ricordato di evitare il labeling, l’etichettatura dei ragazzi. Quello è un bullo, quello è un secchione, quello non ha voglia di studiare. Questo perché i comportamenti dei giovani adolescenti sono spesso temporanei, sono tappe di crescita. Se gli insegnanti pensassero che la condizione dei propri studenti fosse immodificabile, il progetto educativo arriverebbe a un binario morto. Sarebbe inutile andare a scuola. Se uno studente compie atti di bullismo, va aiutato a smettere”.
Bocciarli senza alcun intervento educativo? Non sarebbe cambiato nulla
“I bulli della scuola di Latina hanno compiuto esattamente questo percorso e, arrivati all’esame di terza media, sono stati promossi con un sei in condotta, dunque con un voto appena sufficiente. Può risultare fuorviante, poiché un tempo era un’ignominia avere il sette in condotta, solitamente comminato a coloro che mettevano la scuola a ferro e
fuoco. Negli ultimi anni, invece, il voto di condotta può scendere fino al sei e soltanto il cinque normalmente garantisce una bocciatura automatica a prescindere dai voti nelle materie. Ed è recente inoltre il fatto che nel giudizio di uno studente non possano essere mischiati facilmente i voti con il comportamento. Anche per questo i ragazzi di Latina sono stati valutati per quanto avevano prodotto a scuola durante i compiti e le interrogazioni, mentre la faccenda del bullismo è stata tenuta separata”, ha aggiunto, affermando che la loro promozione è stata lecita.
“Dunque, bene ha fatto la scuola a mettere in campo tutti gli strumenti per arrivare a una conclusione positiva della faccenda. Positiva anche per la ragazzina vessata, che ha potuto vedere come la scuola abbia reagito in maniera forte e determinata per proteggerla e neutralizzare i bulli. Bocciandoli senza nessun intervento educativo, infatti, avrebbe avuto l’unico effetto di spedirli in una nuova classe dove probabilmente avrebbero messo in atto gli stessi comportamenti bullizzanti e, fuori della scuola, avrebbero potuto continuare a perseguitare la ex compagna”.
“Tuttavia la vicenda presenta un lato oscuro. Alcune famiglie si rifiutano di far partecipare i figli al percorso di giustizia riparativa. L’atteggiamento di queste famiglie rischia di vanificare gli sforzi della scuola e mostra come dietro un bullo esistano quasi sempre le responsabilità di un padre o di una madre. Se i loro figli fossero stati bocciati, probabilmente avrebbero fatto ricorso come spesso accade in queste vicende. Fortunatamente la scuola ha reagito diversamente”, ha concluso, sottolineando quali siano le effettive colpe dei genitori in questa storia.
Per i bulli era solo un “gioco”
I ragazzini coinvolti si sono giustificati dicendo che per loro era solo un “gioco”. Le conseguenze sulla ragazzina, ovviamente, sono da considerare seriamente. L’alunna, terrorizzata, si era isolata sempre di più e aveva iniziato anche a entrare in ritardo per evitare di incontrare i compagni all’ingresso della scuola.
La chat dell’odio era stata creata da un ragazzino di cui la vittima si era invaghita, ma che non ricambiava il suo interesse. Poi è diventata un serbatoio di insulti di ogni genere, con tanto di indicazioni sulle modalità, come se fosse una “challenge”, una sfida: bisognava colpire la compagna, soprannominata “Ebola”, umiliandola, per far parte integrante del gruppo.
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