di Francesco Verderami
L’ex ministro: «Se non c’è Draghi corro io». E punta ai voti in uscita da FI. Il segretario dem Letta prova a convincerlo: l’asse può essere decisivo in 40 collegi
Finora Calenda ha ballato da solo ed è così che si è distinto. Diventando centrale nel gioco politico. Crescendo progressivamente nei sondaggi. Fino a proporre Azione come una sorta di polo attrattivo sia per gli elettori riformisti che non hanno mai condiviso lo slogan «o Conte o morte», sia per quelli moderati che non hanno accettato la fine del governo Draghi. Il suo obiettivo è intercettare i voti in libera uscita dei forzisti e trasformare il 25 settembre nel giorno della «non vittoria» per il centrodestra, impedendogli di conquistare la maggioranza dei seggi al Senato e sbarrandogli la strada di Palazzo Chigi.
Un progetto ambizioso, che prima delle urne passa da una scelta strategica: Calenda deve infatti decidere se continuare a ballare da solo o accettare di allacciarsi al Pd. «Insieme metteremmo in discussione il risultato in una quarantina di collegi», gli ha spiegato Letta. Che non può fare a meno di lui e non può nemmeno sostituirlo con Conte: se ci provasse — secondo alcune ricerche in possesso del Nazareno — i democratici perderebbero e Azione andrebbe oltre la doppia cifra. Perciò il Pd gli chiede di danzare insieme e gli chiede di portare con sé anche Renzi, senza il quale il tentativo di bloccare il centrodestra non avrebbe chance.
Insomma Calenda è ritenuto indispensabile dai democratici, per quanto venga sprezzantemente definito dai compagni un «trotzkista di centro». E lui si è preso del tempo prima di dare una risposta, che non è solo un rendiconto sui seggi. Deve tenere in considerazione il rischio di finire schiacciato nella contesa bipolare, anche per effetto della par condicio che in campagna elettorale — se Azione non si coalizzasse — gli assegnerebbe spazi ridotti sui media radio-televisivi. Ma soprattutto deve valutare quali conseguenze produrrebbe nell’opinione pubblica la scelta di campo. Perché, per quanto possa essere derubricato ad «accordo tecnico», un’alleanza nei collegi con il Pd muterebbe nell’elettorato la percezione del suo partito, ne intaccherebbe la diversità.
La decisione potrebbe influire anche sulla squadra che sta costruendo e che prevede oltre all’arrivo di Gelmini anche quello di Carfagna, con l’ipotesi di un partito del Sud da collegare ad Azione: i ministri ex berlusconiani vivono con grande disagio l’ipotesi di ritrovarsi di colpo alleati con il Pd. Calenda vuole analizzare i flussi elettorali e se si accorgesse di un passaggio di elettori da Forza Italia, «allora — ha detto ai suoi — correremmo da soli». Qualche avvisaglia la intravvede, strascico dello strappo operato dal Cavaliere con Draghi e che è stato contestato persino in famiglia dalla figlia Marina.
Alla cassaforte di Berlusconi mira anche Letta, che non riesce a drenare voti grillini a sufficienza. Quando il leader dem gliene ha fatto cenno, Calenda ha tagliato corto: «Quella missione è mia». Ieri se n’è ulteriormente convinto, dopo la direzione del Pd. La tesi di un’alleanza solo a fini elettorali, sostenuta dal segretario, rende la coalizione poco attrattiva. E la presenza di un pezzo della sinistra che resta nostalgica dell’epopea contiana svaluta l’asset di un partito che si propone come alfiere del draghismo. E finisce per minacciare anche l’obiettivo di diventare la prima forza nazionale. Sono valutazioni che ieri facevano sottovoce anche esponenti democrat.
In più Calenda ritiene di arrivare alle urne dopo essersi distinto per il suo «no» al Conte-bis e per una serie di proposte sui temi economici. Mentre dall’altra parte si sono limitati a battaglie sui diritti civili — dal ddl Zan allo ius scholae — e poco altro. Infatti autorevoli dirigenti del Pd criticano il modo in cui il Nazareno ha consentito al leader del Movimento di «strapparci con quel documento di nove punti la bandiera della questione sociale». Adesso c’è una corsa affannosa a recuperare il terreno perso, e c’è chi propone di copiare in campagna elettorale la strategia grillina del 2018: «Allora M5S non faceva che ripetere “reddito di cittadinanza-reddito di cittadinanza”. Adesso noi dovremo insistere a dire “salario minimo- salario minimo”».
Calenda è al bivio. Ha un vantaggio di posizione nello scacchiere politico, ma deve stare attento alla mossa del cavallo. È l’ipotesi che ieri circolava a Montecitorio e secondo la quale, con un gioco di sponda, Meloni e Letta potrebbero rompere con i rispettivi alleati e giocarsi la sfida uno contro uno. Non sarebbe una mossa di scuola, ma in questa legislatura il manuale della politica non è stato quasi mai seguito.
27 luglio 2022 (modifica il 27 luglio 2022 | 00:17)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-07-27 05:33:00, L’ex ministro: «Se non c’è Draghi corro io». E punta ai voti in uscita da FI. Il segretario dem Letta prova a convincerlo: l’asse può essere decisivo in 40 collegi, Francesco Verderami