Cari maestri, cari professori. Ricordi di scuola di un insegnante. Lettera

Cari maestri, cari professori. Ricordi di scuola di un insegnante. Lettera

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Inviata da Gustavo Micheletti – Oggi, purtroppo, questa dei miei maestri e professori è una scuola che non c’è più, o di cui è rimasto poco. Così come è rimasto poco di quella dove ho poi insegnato, in diverse regioni, per 35 anni.

Non l’ho mai considerato nemmeno un lavoro, perché l’ho fatto con piacere, senza sentire la fatica, che pure c’era, senza risparmio di energia e cercando di trasmettere al meglio delle mie possibilità quello che secondo me era degno di essere apprezzato e amato.

Insieme ai miei studenti abbiamo letto libri, proposti da me ma anche da loro, ne abbiamo discusso e ce li siamo raccontati, e

abbiamo anche realizzato documentari e mediometraggi. In uno di questi, liberamente ispirato alla vita di Leopardi, lo studente protagonista, che scriveva già allora delle poesie molto belle, è poi diventato un poeta di prima grandezza nel panorama della poesia italiana contemporanea.

A scuola, nel corso degli anni, abbiamo realizzato anche vari giornali, cartacei e poi on line, ma soprattutto abbiamo fatto delle

belle gite in mezza Europa: abbiamo visitato una Praga piovosa e misteriosa sulla scia di Kafka e Kundera e attraversato Parigi facendo chilometri a piedi di notte e di giorno; ci siamo goduti un bagno termale sotto la neve sulle montagne svizzere e un’escursione nel deserto, dove una notte cavalcammo, dopo una cena sotto una tenda, su dei cavalli berberi intorno a un fuoco.

Bei ricordi. Sono ormai tanti gli studenti di cui ho un bel ricordo: perché spesso mi hanno stupito e sollecitato, perché mi hanno commosso o divertito, rallegrato e consolato, e perché più in generale mi hanno dato soddisfazioni umane e professionali non facilmente dimenticabili. Ma tra tutti, e per tutti, voglio qui ricordarne almeno una, la cui memoria mi è particolarmente cara.

Prima di entrare di ruolo, un anno fui chiamato ad avviare una piccola scuola media per i figli degli ingegneri italiani e argentini che lavoravano lì, a Cernavoda, in Romania, dove il governo rumeno aveva commissionato ad Ansaldo international e a un’azienda canadese di cui non ricordo il nome la costruzione di una centrale nucleare. Cernavoda era una cittadina costruita sulle sponde del Danubio, tra Bucarest e Costanza. Fino a un recente passato era stata una colonia penale di Ceausescu e nel 1992, quando ci arrivai io, aveva circa quindicimila abitanti e sembrava di essere nel XIX secolo: i mezzi di traporto più diffusi erano carri trainati da cavalli o da muli, verso sera i maiali e le oche passeggiavano nella piazza principale sotto la luce fioca di qualche lampione e nei pochi negozi si potevano comprare verdure e carne davvero a poco.

In quella scuola italo-canadese, ma frequentata anche da studenti argentini, avevo una pluriclasse: prima, seconda e terza media tutte insieme, e insegnavo diverse materie, tra cui italiano. Quell’anno i ragazzi lessero molto, circa una media di quattro o cinque romanzi a testa, scelti tra le opere degli autori considerati dei classici della letteratura per l’adolescenza.

Dopo aver letto i vari romanzi, gli studenti li raccontavano ai compagni, arricchendoli con commenti personali di vari tipo e pertinenza, spesso in modo coinvolgente.

Una di loro, Maria Ferrazza, una ragazzina argentina che frequentava la prima, con due occhi neri e luccicanti d’intelligenza,

durante l’anno ne lesse undici, e non solo li lesse, ma li raccontò in classe in modo così divertente e interessante, commentando i caratteri dei singoli personaggi in modo così spregiudicato e così poco imparziale che non solo riuscì a coinvolgere il suo pubblico, ma convinse anche qualche genitore (nel villaggio del cantiere costruito dai canadesi ci si conosceva un po’ tutti) a leggerne qualcuno che si era perso da ragazzo.

Trattandosi di una scuola privata, andammo a sostenere l’esame di Stato alla scuola italiana di Bucarest, dove una commissione era stata inviata direttamente dall’Italia a esaminare gli alunni per l’ammissione alla classe successiva. Furono tutti promossi, e con buoni risultati, ma l’esame di Maria fu un caso unico, credo, nella storia degli esami.

Subito infatti i commissari le chiesero se avesse letto qualcosa durante l’anno, e quando lei gli snocciolò con grande spigliatezza i suoi undici titoli uno dopo l’altro qualcuno di loro si lasciò sfuggire qualche risolino ironico e qualche sguardo incredulo con i colleghi.

Poi gli chiesero di quale preferisse parlare, ma lei fece scegliere loro. Le proposero allora Le avventure di Huckberry Finn, il libro con cui secondo Hemingway nasce la letteratura moderna. Il racconto di Maria, in lingua italiana nonostante che lei fosse di madre lingua castigliana, iniziò in modo come al solito spigliato e divertito, durò circa una quarantina di minuti e fu così ricco di dettagli e commenti significativi e brillanti, con una proprietà di linguaggio così raffinata, che lasciò la commissione letteralmente a bocca aperta, tanto che nessuno osò interromperla o fare commenti di sorta. Alla fine il

Presidente, dopo un lento e reciproco sguardo d’intesa con gli altri commissari, chiese se qualcuno avesse qualche domanda da fare, e tutti lasciarono rapidamente intendere di no.

Fu così che Maria superò l’esame con il massimo dei voti, senza in pratica che le fosse rivolta domanda, e in modo del tutto meritato, come poi la sua successiva carriera scolastica confermò esaurientemente. Quando una decina di anni dopo seppi della sua morte, a Buenos Aires, in un incidente in moto, su cui viaggiava col suo fidanzato, il dolore fu colmo di tutti i ricordi ancora vivi di lei, che era stata la perfetta sintesi delle tante vite che stava per incarnare.

Per questo per me rappresenta ancora, con il suo sorriso e la luce che brillava nei suoi occhi neri, tutti gli studenti di sempre, tutti i giovani lettori che la scuola riusciva a creare e in piccola parte anche oggi riesce forse a formare, tutte le loro gioie, e i loro desideri, tutte le speranze inespresse e irrealizzate che la scuola vede trascorrere e passare e che la gioventù reca sempre con sé da sempre.

Oggi, dopo tanti anni, ho però l’impressione che di quel tipo di scuola resti solo un alone un po’ stereotipato e impallidito. Forse perché tutto quello che abbiamo fatto sarebbe ora difficile a concepirsi oltre che a farsi: oggi ci sono infatti mille regole, norme di ogni tipo, una burocrazia imbarazzante, una lista di sigle e acronimi in perenne divenire cui è difficile star dietro e in tutto questo pare che le cose fondamentali, e cioè l’amore per le proprie discipline e il desiderio di farle amare, siano divenute invece le meno importanti, sostituite da regole che imbrigliano l’insegnamento, della cui utilità non si è convinti, che spesso si considerano controproducenti ma che si devono applicare contro le proprie convinzioni e il senso di tutta la propria esperienza.

Eppure la scuola va avanti, pur tra mille difficoltà e soprattutto mille ipocrisie. Nonostante che sia sempre più nelle mani di quello che, una ventina di anni, venne lucidamente definito dai curatori di un bel libro (Buone notizie dalla scuola) il ceto buro-pedagogico, va avanti, perché ha infinite risorse e opera in una fase decisiva dell’esistenza, perché sa rigenerarsi e rinascere dalle proprie ceneri e dalle proprie sconfitte, come sempre sa fare la vita quando è presa per mano da qualcuno che sappia trasmetterle l’amore per l’arte e la conoscenza.

La lettera integrale

, 2022-12-02 07:56:00, Inviata da Gustavo Micheletti – Oggi, purtroppo, questa dei miei maestri e professori è una scuola che non c’è più, o di cui è rimasto poco. Così come è rimasto poco di quella dove ho poi insegnato, in diverse regioni, per 35 anni.
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