di Pierluigi Panza
Controverso, choccante, ma così timido. Ha iniziato come cameriere, poi lavandaio fino a fare l’operatore in obitorio. Alla costante ricerca di una via di fuga. E ripete: «Non sono un artista»
Come Alexander Portnoy nel romanzo di Philiph Roth, Maurizio Cattelan è alla costante ricerca di una via di fuga: «Io non sono un artista»; «Mi avevano detto che era una professione remunerativa e che avrei conosciuto un mucchio di ragazze, ma non è vero niente». È uno degli individui più timidi e malinconici che abbia conosciuto: si esclude da tutto ciò che lo riguarda. Quest’anno era tra i candidati all’Ambrogino d’oro a Milano, ma se lo sono «dimenticati»: avevano di meglio!
L o incontro una mattina in Biennale (il suo esordio a Venezia è nel 1993 con «Lavorare è un brutto mestiere») e ci facciamo un selfie davanti alla «Maschera di Breton» di René Iché. Lo incontro la stessa sera alla festa di Pinault e mi congeda in fretta per nascondersi dietro le colonne del chiostro dell’Isola di San Giorgio: siamo due timidi. È lui quello appeso, è lui quello nella bara, è lui la banana scocciata, lui il Wojtyla colpito dal meteorite de «La Nona ora» battuta nel 2001 da Christie’s per 886 mila dollari. Appassionato fin da piccolo di apparecchi radiotelevisivi, Càttelan, o in veneto Cattelàn (21 settembre 1960), incominciò come giardiniere e venditore di ninnoli religiosi in un emporio della parrocchia, licenziato perché disegnava baffi sulle statuette di Sant’Antonio, manco fosse Duchamp. Cameriere, lavandaio, antennista poi a pulire i cadaveri all’obitorio di Padova: «Forse è colpa di questo lavoro se quando penso a una scultura la immagino lontana, per certi versi già morta»: credo che «All», nove cadaveri di marmo coperti da lenzuola sia il suo capolavoro.
A 22 anni muore la madre e lui contribuisce a mantenere le sorelle minori. Ha aspirazioni da designer, ma è folgorato dall’arte dopo aver visto un autoritratto allo specchio di Pistoletto.
Così, nel 1989, alla Galleria Neon di Bologna espone il suo primo lavoretto: un cartello con scritto «Torno subito» (titolo dell’opera): è pura Die Kunst der Fuge. A furia di smanettare con pinze e saldatori, nel 1991, alla Galleria d’arte moderna espone la sua prima opera di successo. Si tratta di «Stadium», un lunghissimo tavolo da calciobalilla con due schiere di giocatori: i bianchi sono le riserve del Cesena e i neri gli operai senegalesi che lavoravano in Veneto. Ha già compreso che nell’età della finanziarizzazione del mondo l’arte è comunicazione spettacolarizzata, deve creare choc e turbare le coscienze. Ad arricchirsi saranno i galleristi.
Nel 1993 arriva la sua personale alla Galleria De Carlo, che consiste nel chiudere la galleria dal cui vetro s’intravvede a malapena un animaletto imbalsamato. È arte della fuga: già nel ’92, al Castello di Rivara aveva appeso a una finestra che dava sull’esterno una corda di lenzuoli annodati in un gesto simulato di evasione. Nel ’94 è alla Newburg Gallery di New York con «Warning! Enter at your own risk…», mostra di un solo giorno: un asinello chiuso in una stanza, chiaro richiamo a Joseph Beuys.
Da allora prende a giocare brutti scherzi ai potenti, come Kennedy («Now» del 2004), a se stesso («Spermini» del 1997, «Mini-me» del 1999, «La Rivoluzione siamo noi» del 2000), al suo gallerista attaccandolo al muro con lo scotch, ai cavalli(«Novecento» del 1997), agli asini simbolo di ignoranza («mi identifico»), a Hitler inginocchiato, fatto di resina, poliestere e capelli umani: nel maggio 2016 quest’opera viene battuta per 17,2 milioni di dollari («ma io ci ho guadagnato 50 mila euro»). Gioca ad avere un alter ego: è il curatore Massimiliano Gioni, che negli anni Novanta si spaccia per lui nelle interviste.
Cattelan abita tra Milano e New York, nel senso che se è a Milano risponde che è a New York e viceversa. Internazionale sì, ma al suo paese, manco a dirlo, nel 2011 lo battezzano «el mona» perché ha imbalsamato duemila colombi collocandoli sopra gli impianti dell’aria condizionata delle sale della Biennale.
Il primo caso a Milano lo crea nel 2004 per la Fondazione Trussardi, quando appende alla quercia di piazza XXIV Maggio tre figure di bambini in resina deliziosamente innocenti e a piedi scalzi. Franco De Benedetto, un muratore di 43 anni con cinque nipoti, nel caos di strepiti e proteste della folla che grida «via da Milano questi impiccati» prende la sua scala a pioli, la sistema e recide un ramo dov’è fissato un manichino. Poi precipita, viene trasportato in ospedale per «trauma cranico e contusioni» (seguirà causa giudiziaria). Il secondo caso è del 2010 con L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) il monumentale dito medio alzato nel centro di piazza Affari davanti alla Borsa: seguono varie ipotesi di rimozione.
Intanto si è fidanzato con la conduttrice televisiva italo-inglese Victoria Cabello che, parlando d’amore, in un’intervista a «Verissimo» afferma: «Se c’è un pirla nel raggio di 100 chilometri, io lo individuo e mi ci fidanzo». Lui? Impossibile. Questo ragazzo ha il naso lungo e il cervello fino, tanto che nel 2004 l’Università di Trento gli conferisce una laurea honoris causa in Sociologia. «Proprio a me — commenta — che sono stato due volte bocciato e poi ho fatto le serali». Del resto i professori non ci hanno mai preso: definirono Winckelmann, il più grande studioso d’arte che l’umanità abbia avuto, un «ragazzo vago e incostante». All’atto del conferimento Cattelan fa leggere un discorso presentandosi con un collare di gesso avendo avuto, o finto di avere, un incidente sugli sci il giorno prima: «A scuola sono stato un alunno terribile — racconta agli studenti —. In terza elementare insieme alla pagella mi hanno dato il libretto di lavoro: avevo passato così tanto tempo in corridoio che mi avevano assunto come bidello. Io, senza gli altri, non sono nessuno. Anche questo discorso l’ho scritto insieme a un amico, rubando qualche frase qua e là. È dai tempi della scuola che vado avanti così: la mia maestra si arrabbiava perché non avevo neanche la furbizia di copiare dagli studenti più bravi».
Per fuggire dall’arte, nel 2010 inventa con il fotografo Pierpaolo Ferrari la rivista «Toilet Paper», carta igienica. Ma la fuga non riesce: nel novembre 2011 la Mecca dell’arte, il Guggenheim di New York lo celebra con la retrospettiva «All»: 130 opere pendono dal soffitto del museo progettato da Frank Lloyd Wright. Chiude la mostra ed è la fine, decide di impagliarsi: «Ero infelice, anestetizzato. Ma alla fine è venuta la soluzione, ho visto la luce in fondo al tunnel: ritirarmi». Fuga definitiva? Ma no, figuriamoci: ritorna ancora e si chiude… in bagno! Nel 2016 espone un cesso: l’opera anti-Trump chiamata «America» consiste in un wc rivestito in oro a 18 carati utilizzabile dai visitatori del Guggenheim, poiché è esposto in un bagno del museo. Evacuare tra 18 carati non è per tutti e tutti si sparano un selfie dal gabinetto firmato. Nel 2022 ha esposto in Cina e nel 2023 andrà a Seul. «Poi basta impacchetto tutto»: eccome no!
27 novembre 2022 (modifica il 27 novembre 2022 | 22:19)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-11-27 22:01:00, Controverso, choccante, ma così timido. Ha iniziato come cameriere, poi lavandaio fino a fare l’operatore in obitorio. Alla costante ricerca di una via di fuga. E ripete: «Non sono un artista», Pierluigi Panza