di Flavio Vanetti
L’ex manager di F1: per produrre l’olio ho ripreso a studiare. Un amico mi tempestavadi foto di trulli e mi invitava in Puglia. Nel 2000 sono venuto la prima volta. Dissi: resto fino a Natale, non sono più andato via
Cesare Fiorio, dopo una vita tra rally, F1 e offshore lei ora gestisce una masseria in Puglia, occupandosi pure di olio e grano: si sente più un manager dei motori o un imprenditore che spazia nell’agricoltura?
«Quarant’anni nelle corse sono indimenticabili, ancora oggi la gente mi ricorda per quello che ho fatto: ho cambiato vita, ma guardo a quel passato».
Questa nuova «pelle» la sorprende?
«No. È stata una svolta progressiva. Non conoscevo la Puglia. Un amico mi tempestava di foto di trulli e di ulivi secolari: “Vieni qui”. Nel 2000 raccolsi l’invito: rimasi colpito dal territorio, dal clima e dalla gente, calma e cortese. Mescolai gli ingredienti e comperai un appartamento a Ostuni».
Però lei viveva in Sardegna.
«Il progetto del record atlantico con Destriero mi aveva fatto fare base a Porto Cervo. Però volevo scappare: troppa gente, troppo casino. Così ero sempre più spesso in Puglia. Un anno dissi: “Rimango fino a Natale”. Ecco, non sono più andato via».
L’idea della masseria com’è maturata?
«Era un rudere, gli uliveti erano incolti. Scattò la scintilla: andava rimessa a posto. Attorno aveva 27 ettari di una terra coltivabile che costava poco. Mi sono inventato contadino? Non proprio: avevo cominciato a studiare la coltivazione degli ulivi per imparare a fare l’olio. È una lavorazione difficile, ho interpellato grandi esperti per arrivare a un prodotto fuori dal comune».
È stato come tornare sui banchi di scuola?
«Seguivo i contadini, ma mi sono reso conto che erano rimasti ai criteri di cent’anni fa. Così ho studiato e ho frequentato seminari per raggiungere un livello di eccellenza».
Ospitalità alberghiera e olio: è questo il «core business»?
«C’è molto di più: innanzitutto siamo un’azienda agricola biologica che produce pure il grano Senatore Cappelli, pregiato e di tendenza. Sono in pochi a dedicarsi a questa lavorazione. Ci sono poi frutteti, la bio-piscina, un percorso di 2 km dedicato alla biodiversità e sette camere ricavate in vecchi trulli. Nella masseria ho dedicato un locale, la stanza Ferrari nella quale ho lo scafo della Rossa di Nigel Mansell che vinse in Brasile, per un’iniziativa nei giorni dei Gp: brunch e F1. Gli ospiti vengono, fanno uno spuntino, vedono la corsa con me e poi assieme la commentiamo».
Lupus in fabula: la F1. Più bella quella di oggi o quella dei suoi giorni?
«Il fascino della F1 è senza tempo e offre storie uniche. Spesso ricordo quando dirigevo la Ligier, che era di Flavio Briatore: ogni volta era una sfida infernale, si partiva non da zero ma da sottozero. E ce l’abbiamo fatta, imponendoci addirittura a Montecarlo nel 1996, tant’è che Flavio l’ha rivenduta due volte».
Due volte?
«Sì. La vendette, poi la riacquistò da chi non aveva saputo gestirla bene, quindi la cedette di nuovo. A lui importavano gli affari, io guardavo di più, romanticamente, allo sport e ai risultati. Così una volta mi apostrofò: “Sei l’ultimo rimasto che cerca di vincere le gare”».
Flavio è tornato in F1, come consulente.
«È un fenomeno: azzeccava i collaboratori, ascoltava quelli che ne capivano, è sempre stato modesto. Ed è riuscito a entrare nella stanza dei bottoni».
Come si vince in F1?
«Con le intuizioni. Se non ne hai e vai a rimorchio, arrivi sempre dopo: il punto di rottura è la soluzione che altri non hanno pensato. Volete conoscere un aneddoto?».
Prego, racconti pure.
«Nei rally ho avuto Marku Alen, fuoriclasse assoluto. Costringeva l’ingegner Lombardi, il direttore tecnico, a pasteggiare a pesce. E gli diceva, in italiano maccheronico: “Tu Lombardi mangiare pesce, così fosforo ti accende lampadina».
I rally, un amore che ha preceduto quello per la F1.
«Gareggiavo in pista e in salita, più che nei rally. Creai un team con due amici, mi feci un nome. Come manager sono nato nella Lancia, ma quando fu comperata dalla Fiat fui nominato coordinatore dei due reparti corse. Quando correvo, il mio navigatore era Daniele Audetto, un tipo sveglio: gli chiesi di seguirmi, per anni mi fece da vice. Ora è triste vedere che uno sport come questo non finisce più nemmeno nelle “brevi” dei giornali».
Il ruolo di team principal della Ferrari è stato la laurea motoristica?
«È stato un punto d’arrivo, del quale sono orgoglioso. Nei 10 anni precedenti la Ferrari aveva vinto solo 3 volte. Io di 36 GP ne ho vinti 9, quindi un successo ogni 4 corse. E un Mondiale sfiorato, nel secondo anno: se Senna non avesse buttato fuori Prost a Suzuka, sarebbe stato nostro».
Però alla Ferrari lei voleva Ayrton. E Prost s’inferocì.
«La realtà è diversa. La trattativa con Senna la conoscevamo solo io, lui e il board Ferrari. Prost fu sobillato da un altolocato boiardo aziendale: “Lo sai che il tuo capo sta per ingaggiare Senna?”. Mi scavalcò e aggiunse: “Finché ci sarò io, Ayrton non arriverà”. Prost invitò questa persona a dirlo a Cesare Romiti. Capii che per me il tempo a Maranello era finito».
Sarebbe riuscito a farli coesistere?
«Non mi interessava che i due andassero d’accordo. I piloti non devono volersi bene, al diavolo chi pensa il contrario».
Senna avrebbe cambiato il destino ferrarista?
«Sì. Ma anche il mio (risata)…».
Nello scorso decennio la Ferrari ha «bruciato» Alonso e Vettel: è mai possibile?
«Quando hai piloti di quel livello devi vincere entro un paio d’anni: sennò crolla tutto».
A Michael Schumacher ne sono però occorsi 4 prima di arrivare al titolo con il Cavallino.
«Luca di Montezemolo copriva le difficoltà…. La Rossa ha impiegato 7 anni a uguagliare i miei risultati, ma a me hanno messo i bastoni tra le ruote e mi hanno rinfacciato un Mondiale perso dopo 10 anni di buchi: di che cosa parliamo?».
Lei è stato una «chioccia» dei piloti italiani.
«Alboreto, Patrese, Fabi, Nannini… Il primo pensiero alla Ferrari è stato per loro. Nannini si è autoeliminato, voleva due anni di contratto e io gli dissi: uno solo e poi vediamo, qui decido io. Non ha capito che era una verifica necessaria. In quel momento Alesi era l’astro nascente e, vista la posizione di Nannini, presi lui. Jean dovrebbe odiarmi: l’ho strappato alla Williams, dopo tre mesi ho lasciato la Ferrari e la Williams ha vinto tre Mondiali».
Un bel giorno, Fiorio si dedica al mare: offshore, gare e record.
«In realtà regatavo già a vela, con i Flying Dutchman».
Ma lei non era l’uomo delle montagne?
«Sì, sono stato a lungo presidente dello Sci Club Cervino e ho “allevato” tanti sciatori. L’offshore arrivò perché allestii una squadra per Carlo Bonomi: poi sono diventato navigatore e pilota, vincendo due Mondiali e un Europeo. Infine ho avuto la chance del primato sull’Atlantico con la nave Destriero, un’impresa che vale il Nastro Azzurro e che rimarrà nella storia».
Era il 1992, trent’anni fa. Da New York alle Isole Scilly in Inghilterra: 3.106 miglia in 58 ore e 34 minuti alla media di 100 km orari. Lei pilotava ed era il responsabile organizzativo: tuttora è un record imbattuto, eppure l’hanno contestato.
«È una manovra degli inglesi: hanno inventato l’Hales Trophy per navi passeggeri contrabbandandolo per il Nastro Azzurro, che invece è un’altra cosa. Il primato è nostro, a pieno titolo».
Un successo sportivo e tecnologico.
«Abbiamo già festeggiato il trentennale — anche se la data del record è il 9 agosto — e ci si sta adoperando per far tornare Destriero in Italia: ora accumula ruggine in un cantiere tedesco, vogliamo che diventi un museo. Era un progetto avveniristico al quale partecipò il meglio della nautica mondiale partendo da Fincantieri, azienda statale che mandava a casa la gente perché priva di ordini militari».
Quindi avete contribuito a salvarla?
«Non è esagerato sostenerlo. La General Electric fornì tre turbine montate sugli F-117 a tecnologia stealth che erano stati impegnati nella Guerra del Golfo: i propulsori assicuravano 60 mila cavalli di potenza. Si era al via dell’alta velocità sul mare: dopo il successo di Destriero, Fincantieri ricevette commesse da tutto il mondo, tra queste quelle della Us Navy per 30 pattugliatori da usare nel Mar Rosso contro i vascelli pirata».
Torniamo alla F1. Michael Schumacher avrebbe vinto anche senza Jean Todt?
«Difficile dirlo, la vera intuizione di Todt è stata quella di ingaggiare lo staff vincente della Benetton. Michael non ha dovuto sfidare super-fenomeni e ha perso dei Mondiali contro avversari normali. Quando ne è arrivato uno fortissimo, cioè Alonso, il Dream Team s’è sciolto: Todt sarebbe poi andato alla Fia, Schumi pareva aver chiuso con la F1».
Invece è tornato ed è andato alla Mercedes.
«Uno sbaglio: Rosberg l’ha massacrato».
Mattia Binotto, oggi nel ruolo che fu su o, è nella burrasca perché la Ferrari sta buttando via il Mondiale.
«Mattia è un eccellente tecnico che ha dovuto imparare un lavoro non suo. Adesso deve far ritrovare alla Ferrari lo smalto d’inizio stagione dopo errori e guasti. Ma per me la macchina è la migliore del campionato».
6 agosto 2022 (modifica il 6 agosto 2022 | 22:51)
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, 2022-08-06 21:03:00, L’ex manager di F1: per produrre l’olio ho ripreso a studiare. Un amico mi tempestavadi foto di trulli e mi invitava in Puglia. Nel 2000 sono venuto la prima volta. Dissi: resto fino a Natale, non sono più andato via, Flavio Vanetti