Conte, parabola di un leader. La metamorfosi dell’ex premier M5S

Conte, parabola di un leader. La metamorfosi dell’ex premier M5S

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di Roberto GressiLa parabola dell’ex premier: da statista che liquida il Salvini del Papeete al ritorno di una copia sbiadita dei tempi del «vaffa» Che vita difficile, e che parabola incredibile. Mancano 120 ore al giudizio universale, che vale per tutti, ma per Giuseppe Conte in modo particolare. Padella o brace. Da una parte l’andata a Canossa, qualora il pressing italiano e internazionale convincesse Mario Draghi a restare. Dall’altra la rottura e una nuova sfida, stavolta con le pulsioni iper populiste di Alessandro Di Battista, che già affila le armi perché la guida del Movimento in mano all’ex premier non sia che una parentesi. Mercoledì il premier dimissionario sarà davanti alle Camere e il filo sottile, quasi inesistente, che porta a una riedizione del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, passa per una porta strettissima per l’avvocato del popolo. Sì al termovalorizzatore, no allo scostamento di bilancio, si alle riforme fiscali e della concorrenza, si al sostegno all’Ucraina senza cedimenti, no a una quotidianità fatta di strappi piccoli e grandi per cercare di razzolare i voti perduti. Dura da digerire. Ma dura anche da rifiutare, perché dall’altra parte c’è la fiera pasionaria dei barricadieri a Cinque stelle, ugualmente rissosi ma assolutamente privi della fantasia onirica, per quanto velleitaria, del fondatore: il Beppe Grillo della prima ora. I contorcimenti delle ultime ore con l’ipotesi di ritirare i ministri, con i ministri che fanno sapere che non ci pensano proprio e con Giuseppe Conte costretto a veicolare che non è lui che l’ha detto ma che piuttosto il dimissionario è Draghi, non sono che un assaggio disperato di quello che può succedere nei prossimi giorni. O in questi minuti, con l’ex premier che magari la spunta e riesce a portar via dal governo la sua delegazione. Ma è qui che si aprirebbe la partita più ardua per Conte, quella per mettersi a capo di un’Armata Brancaleone assai difficile da guidare. Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, perché da noi, e non solo da noi, è stato convertito in un genere di consumo. E quindi è lecito raccontare cosa pensa Alessandro Di Battista, con le parole che lui stesso ha affidato alle agenzie. Il Che Guevara di casa nostra, con la vespa al posto della motocicletta e il parco alberato di Monte Mario al posto della giungla cubana o boliviana, ancora non si fida. Sarebbe un’ottima notizia, dice, se il governo cadesse, ma non ne è così sicuro: «Perché quelli che si appellano al senso di responsabilità, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. E in caso di elezioni non potrebbero fare comizi se non mettendosi di spalle, anche se in molti, guardandogli i deretani, riconoscerebbero all’istante i loro volti». — Scenari sul futuro Parlamento: vince il centrodestra in 3 casi su 5. Il sondaggio di Nando Pagnoncelli Davvero ha qualcosa a che fare con questo linguaggio l’uomo della pochette? Il premier che parlava con rassicurazioni flautare agli italiani chiusi in casa per il virus, il leader che faceva sapere di trattare alla pari con la cancelliera tedesca Angela Merkel per il Piano di ripresa e resilienza? Lo statista che faceva fuori il Matteo Salvini del Papeete e che una volta sconfitto con il suo secondo governo passava la campanella a Mario Draghi assicurando il suo sostegno leale perché l’Italia viene prima? O quello che pretendeva che si prendesse per buono il suo no a che diventasse presidente della Repubblica perché non si poteva assolutamente fare a meno di Draghi alla guida dell’esecutivo? E che fine ha fatto l’uomo che, ai tempi d’oro, il suo staff accreditava come uno statista che non avrebbe sfigurato al Quirinale? Sembra suicida il suo tentativo di mettersi alla testa di una copia sbiadita e sgangherata dei tempi del vaffa, senza idee nuove, senza il lavoro certosino di quello sgobbone di Luigi Di Maio, con una ridotta di parlamentari fedeli solo finché qualcuno non gli buttasse un’ancora del si salvi chi può e con il ministro degli Esteri che è già pronto ad accogliere una pattuglia nutrita di nuovi fuggiaschi. Si apre per altro, per l’ex premier, una partita disperata sul fronte delle alleanze. Nel Pd c’è chi comincia a mettere in discussione anche le primarie comuni per le regionali siciliane e la possibilità di individuare nei collegi uninominali candidati unitari è destinata a naufragare con il giudizio diverso sul governo Draghi, sulla guerra e su tante altre cose. Con l’aggiunta del taglio dei parlamentari quello che fu l’esercito dei cinque stelle si avvia sulla strada dell’irrilevanza. Conte non può nemmeno contare su un sostegno sicuro di Beppe Grillo, che ha smesso di amarlo già agli esordi della sua contrastata leadership, quando tentò, senza riuscirci, di ottenere per statuto i pieni poteri, esautorando il fondatore. È in fondo la sua vocazione avvocatizia a confonderlo, l’idea che in politica ci si possa impossessare del timone di un partito mettendolo per iscritto, e non conquistandolo giorno dopo giorno. 16 luglio 2022 (modifica il 16 luglio 2022 | 11:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-07-16 09:21:00, La parabola dell’ex premier: da statista che liquida il Salvini del Papeete al ritorno di una copia sbiadita dei tempi del «vaffa», Roberto Gressi

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