Non capita spesso che gli ambientalisti radical chic dei paesi occidentali e il regime cinese siano associati in una comune responsabilità.
È successo nello Sri Lanka, che paga gravi conseguenze per quella collusione oggettiva.
Il Paese è in preda a una crisi drammatica il cui ultimo capitolo è segnato da violente proteste di piazza che hanno costretto alle dimissioni e alla fuga i fratelli Rajapaksa, rispettivamente presidente e primo ministro fino a pochi giorni fa. Lo Sri Lanka è un paese molto piccolo rispetto ai giganti di quell’area: l’isola ha solo 22 milioni di abitanti, un’inezia rispetto agli 1,4 miliardi del suo vicino settentrionale che è l’India. Ma occupa una posizione strategica lungo le rotte navali delle Vie della Seta, solcate già tremila anni fa dai mercanti che trasportavano tessuti, spezie, pietre preziose dalla Cina verso l’Asia meridionale, il Corno d’Africa e il Mediterraneo. Perciò lo Sri Lanka (ex-Ceylon) porta le tracce di una storia antichissima, dalle origini altrettanto remote della civiltà indiana.
Tuttora, proprio per la sua posizione, quest’isola è concupita dai cinesi nell’ambito del loro piano espansionistico Belt and Road Initiative, quella costruzione di infrastrutture che chiamiamo anche Nuove Vie della Seta.
Lo Sri Lanka del 2022 è in una situazione di bancarotta sovrana, che non è solo un disastro finanziario segnato dall’incapacità di restituire debiti o di farsi concedere nuovi prestiti: nell’immediato il Paese non ha i mezzi per pagare le importazioni di cibo, medicinali, carburanti. È allo stremo.
Le file ai distributori di benzina sono chilometriche. Scuole, aziende, uffici sono quasi tutti chiusi.
È un disastro anticipatore di quanto potrebbe accadere in molti altri paesi poveri colpiti dalla crisi alimentare.
Quella dello Sri Lanka però ha delle cause molto specifiche, sconcertanti o istruttive a seconda dei punti di vista. E la guerra in Ucraina, con l’iperinflazione dei prezzi dei cereali, è stata solo una concausa finale, ha aggravato problemi che la precedevano di anni.
Un piccolo, sporco segreto, quasi invisibile nei resoconti internazionali, è all’origine della crisi agroalimentare che affama la popolazione. I fratelli Rajapaksa, ascoltando consiglieri occidentali dalle credenziali ultra-ambientaliste, cercarono di convertire l’intera agricoltura dell’isola ai metodi agro-biologici. Nell’impeto riformatore, agognando alla purezza degli ambientalisti dei paesi ricchi, vietarono l’importazione di fertilizzanti chimici sull’isola. Il risultato è stato una catastrofe agricola di proporzioni inaudite, il crollo dei raccolti, la penuria.
L’agricoltura biologica, allo stato dell’arte attuale, fornisce prodotti meno contaminati ma ha una produttività molto inferiore a quella tradizionale. Detto in modo molto esplicito, è un lusso per ricchi, insostenibile se applicato su vasta scala. Mentre l’agricoltura moderna che usa metodi industriali e fertilizzanti chimici è perfettamente in grado di sfamare gli otto miliardi di abitanti del pianeta (come ha dimostrato la «rivoluzione verde» che trasformò l’India da paese affamato a superpotenza esportatrice di derrate agricole), un’applicazione generalizzata del «bio» condannerebbe alla fame la maggioranza dell’umanità.
Provare per credere: i cittadini dello Sri Lanka sono stati le cavie involontarie di questo esperimento sciagurato. E ora non hanno da mangiare.
Tra la prospettiva di morire di fame, e gli eventuali danni alla salute per il consumo di cibi prodotti dall’agricoltura moderna, loro non avrebbero esitato a scegliere il male minore, cioè il secondo. Ma gli abitanti dello Sri Lanka non hanno avuto scelta, la decisione strategica sul «bio» è stata presa da esperti che si sono dati la missione di salvare il pianeta (sacrificando, se necessario, l’umanità che lo abita).
L’altra peculiarità dello Sri Lanka è questa: l’isola rientra nella fattispecie dei Paesi che sono scivolati dall’orbita finanziaria dell’Occidente verso quella della Cina.
Chi era abituato a denunciare i misfatti del Fondo monetario internazionale (che nella vulgata vetero-marxista degli anni Sessanta e Settanta veniva equiparato a un braccio finanziario dell’imperialismo americano) ora deve constatare che l’alternativa non è esaltante. La Cina è diventata il principale creditore dello Sri Lanka, con 12 miliardi di dollari di prestiti, per lo più inghiottiti in progetti infrastrutturali rovinosi, «cattedrali nel deserto», forse con qualche vantaggio per i fratelli Rajapaksa, di sicuro non per la popolazione dell’isola.
La Cina non è un creditore malleabile né indulgente. Già cinque anni fa Pechino «pignorò» un porto costruito con i suoi prestiti nello Sri Lanka, che ora è di proprietà cinese.
Xi Jinping negozia la ristrutturazione del debito dello Sri Lanka con atteggiamento ben più duro di quanto farebbe il Fmi.
La vicenda è istruttiva e viene osservata con attenzione in altre parti del mondo. L’elenco dei paesi debitori della Cina e già in bancarotta o a rischio di insolvenza si sta allungando: Pakistan, Laos e Zambia sono fra i più pericolanti.
Le Filippine del neo-presidente Marcos hanno appena cancellato alcune richieste di prestiti alla Cina per grandi opere nel settore ferroviario. Le Nuove Vie della Seta non sono tutte cosparse di rose e fiori.
20 luglio 2022, 13:05 – modifica il 20 luglio 2022 | 14:59
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, 2022-07-20 13:00:00, Pechino è il principale creditore dello Sri Lanka, e ora ne sta ristrutturando il debito con modalità durissime. Ma il Paese paga anche le scelte sbagliate sull’agricoltura dei fratelli Rajapaksa, Federico Rampini