di Roberta Scorranese
Una mostra a Bassano del Grappa celebra l’artista in chiave di ambasciatore di una nuova epoca, fondata sul gusto dell’antico e sull’arte come «bene comune»
A duecento anni dalla morte, quello che colpisce della vicenda umana e artistica di Antonio Canova è la sua straordinaria semplicità. «Auguro a me stesso un buon successo, ma non tale da diventare inquieto o smanioso», scrisse una volta. Ecco, il successo: è forse questo il codice per capire bene lo scultore nato a Possagno nel 1757 e morto a Venezia nel 1822. Un grande successo in vita, una fama internazionale, una carriera poliedrica (artista, diplomatico, collezionista, talent scout) che, però, si esaurì alla sua morte, per rinverdire secoli dopo, nel secondo (e tardo) Dopoguerra. Ma perché questa parabola? Una risposta la dà la mostra Io, Canova. Genio europeo, ospitata a Bassano del Grappa, a pochi chilometri dalla sua Possagno, dove si custodisce un importante nucleo della sua produzione. «Genio europeo», appunto, è il tema che qui si indaga grazie al lavoro dei curatori e della direttrice del Museo di Bassano, Barbara Guidi. E a loro va il merito di aver inquadrato Canova non tanto nell’alveo della generica «popolarità», quanto in un territorio più ambizioso, cucito nella storia. Antonio Canova nacque in una famiglia di scalpellini e tagliapietre e non rinnegherà mai la sua non appartenenza all’alta aristocrazia o alla classe intellettuale. Anzi. Il suo rapporto quasi simbiotico con la pietra e con gli strumenti del mestiere saranno il terreno perfetto per cogliere e interpretare quel sentire culturale che lentamente cominciava a pervadere l’Italia all’epoca della sua giovinezza. Una rinata passione per l’antico, per il classico.
Il progetto romano
Sta qui il primo tassello per definire l’europeismo di Canova: a Roma si trovò al centro di un progetto politico papale che mirava a ricomporre la grandeur dei pontefici rinascimentali anche attraverso l’arte e le collezioni vaticane. Però questo non era un messaggio rivolto soltanto all’Italia, anzi. Era una vera e propria «politica estera», che si rivolgeva a un uditorio più ampio. Canova, dunque, quando scolpiva lo faceva parlando al mondo e facendosi portavoce di un universo ambizioso, intriso di riferimenti classici, con modelli come l’antica Grecia o l’antica Roma. E il secondo tassello dell’europeismo canoviano sta nella sensibilità con la quale questo messaggio venne recepito, adottato, apprezzato, diffuso. Nel catalogo (Silvana) che accompagna la mostra, Roberto Balzani annota: «La guerra dei Sette Anni, primo conflitto globale, combattuto dalla Francia e dalla Prussia contro la Gran Bretagna non solo sul continente europeo, ma in India e in America del Nord, rappresentò un autentico spartiacque: mise in risalto la questione delle risorse finanziarie e logistiche, che di fatto stabilivano una gerarchia nella rappresentazione delle potenze; e rivelò la coesistenza di un’impostazione continentale». Il processo di europeizzazione era in corso e Canova ne diventò uno dei grandi protagonisti, uno dei cesellatori del gusto e dello stile. Ma non solo.
Il concetto di «bene comune»
Nell’Europa del trionfo del Grand Tour c’era bisogno di una politica culturale che valorizzasse l’arte come bene comune e non come mero oggetto di commercio o di ammirazione. La missione di Canova, che dopo l’epoca di Napoleone si lanciò nell’impresa diplomatica del riportare a casa le opere sottratte durante le campagne belliche, segnò un momento chiave nella definizione di «bene culturale», cioè come qualcosa di vivo, di presente. L’idea stessa di passato cambiò con Canova: non più una lontana epoca da «copiare» ma le vestigia di un mondo da preservare, proteggere e nel quale affondare le radici. Sono questi i cardini dell’europeismo di Canova, una lettura ben declinata in questa mostra, in cui Giuseppe Pavanello e Mario Guderzo hanno voluto inserire opere (dal grande gesso della Religione dei Musei Vaticani all’imponente Marte e Venere dalla Gypsoteca di Possagno) importanti per capire la modernità canoviana. Ma nel successo si annidava la fine: il gusto neoclassico era destinato a soccombere con la rivoluzione romantica, con la resurrezione di altri patriottismi. Ecco perché oggi, a duecento anni dalla morte, ci restano alcune lezioni canoviane. Come quelle espressioni di buon senso che abbiamo citato all’inizio. E che restano emblema di una grandezza semplice.
2 novembre 2022 (modifica il 2 novembre 2022 | 19:55)
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, 2022-11-02 19:25:00, Una mostra a Bassano del Grappa celebra l’artista in chiave di ambasciatore di una nuova epoca, fondata sul gusto dell’antico e sull’arte come «bene comune», Roberta Scorranese