Il regista è a Venezia con «L’immensità», storia autobiografica: «È il film che inseguo da sempre, ora sono pronto»
DAL NOSTRO INVIATO
VENEZIA — «Che importanza ha che sia stato una donna? Quello che conta è ciò che faccio oggi. Sono un uomo e una donna come gli altri? No: sono io. Ho fatto cinema nella speranza di raccontare un giorno questa storia».
Emanuele Crialese torna in gara al Lido con «L’immensità» (esce il 15 per Warner) e una musa chiamata Penelope Cruz. È nato — è lui a dirlo — Emanuela: è diventato Emanuele. Nell’ambiente un po’ si sapeva, lui la racconta oggi, questa storia che non potrebbe essere più intima e personale: quella di una bambina che si sente maschio.
La sua storia. «Sì, mi riguarda molto da vicino. Ma non è un film sulla transizione e sul coming out, sarebbe disinformazione dirlo. È un film fortemente autobiografico».
Roma, Anni ’70, un marito traditore seriale che picchia la moglie, lei lo subisce, della figlia maggiore dice: si chiama Adri. «Hanno una connessione forte – racconta Penelope – la casa per loro due è una specie di carcere, la figlia dice mi avete creato male, e che viene da un’altra galassia, invoca un extraterrestre che la porti in un’altra dimensione. Ho fatto questo film anche per il tema delle violenze domestiche».
Crialese, perché ora?
«È il film che inseguo da sempre, il più desiderato. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio cinematografico. Si può raccontare una storia quando si è capaci di esprimersi. Una rinascita. Ero pronto a rinascere con questa storia».
È stato molto coraggioso.
«Io sono quello che sono, perché devo rassicurare? C’è bisogno che dica io sono maschio o femmina? Sono quello che lei ha davanti, non basta? Sono e non sono, essere o non essere… Spero di non minacciare nessuno. Voglio dire una cosa politica: questo Paese sta cambiando, siamo impauriti, tutto si può fare tranne avere coraggio. La donna è la parte migliore dell’uomo che sono, è quella dentro di me, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri. La donna è un campo di battaglia, dà la vita, allatta, rinuncia, si sacrifica, ha lottato per emanciparsi. Descrivere un uomo sarebbe noioso».
Sua madre?
«Si nascondeva insieme a me, abbiamo vissuto l’immensità. Non sapeva dove sbattere la testa. I tempi sono cambiati. La mentalità è la stessa. Il personaggio del padre (Vincenzo Amato) non è mai cresciuto, è rimasto un bambino, la madre l’ha autorizzato a comportarsi in quel modo con le donne».
Lei sul passaporto…
«Per cambiare la A con la E del mio nome, ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, sennò non avrei potuto cambiare nei documenti. Ne parlavo col regista Inarritu, non c’è film che non sia autobiografico. Si raccontano le proprie ossessioni e passioni. Da “Terraferma” a “Nuovomondo”, ho sempre fatto film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro. C’è molta trasfigurazione, non giro documentari, è la mia esperienza di vita. Il cuore del film è la libertà, come si possa cambiare, come l’identità sia un fatto relazionale. La casa è una sorta di navicella spaziale, è il corpo non c’è nulla di realistico, dentro c’è il cuore e il cuore è malato. I bambini ci portano oltre i nostri confini e i tre figli esprimono il disagio attraverso il corpo, mangiano troppo o non mangiano…».
Il suo alter ego nel film è Luciana Giuliani: come l’ha trovata?
«Ha 13 anni, sarebbe stata un errore cercarla in chi vive quel disagio, ho pensato a una disciplina sportiva maschile, Luciana è una campionessa di mini motociclette. Compete con i maschi. È difficile gestire un adolescente sul set, vengono trattati come dei, lei doveva cercare il suo spazio di libertà».
Penelope Cruz?
È l’archetipo femminile, è una donna del passato, presente e futuro. Parla l’italiano con accento spagnolo, una sporcatura, avrebbe potuto parlare in romanesco ma ho preferito così».
A un certo punto, lei si sovrappone nelle immagini a Patty Pravo e Raffaella Carrà, due icone del mondo gay.
«Raffaella è un mito per Penelope, che però non ha mai conosciuto ma in Spagna ballava le sue canzoni al parco per le amiche della nonna. Volevamo invitarla sul set, è morta qualche ora prima. Da 18 a 60 anni, è sempre rimasta fedele a sé stessa, ma sempre moderna. Patty Pravo… La vidi a Roma che usciva da una Rolls Royce bianca con degli occhi che mi facevano paura, è uno stordimento, un vortice. Le persone che si amano di più è meglio non incontrarle».
Emanuele, ha parlato con la sua famiglia d’origine?
«Se fosse stato il mio debutto le reazioni sarebbero state scomposte. Trattandosi del mio quinto lavoro non c’è stato il panico, ma curiosità e preoccupazione rispetto alla verosimiglianza dei personaggi».
Cosa vorrebbe che arrivasse di questa storia?
«Che ho fatto un film, affrontando una grande prova di coraggio. Mi sono esposto, non dal punto di vista sessuale ma nella mia privacy, nella mia dimensione umana».
4 settembre 2022 (modifica il 4 settembre 2022 | 17:06)
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, 2022-09-04 21:32:00, Il regista è a Venezia con «L’immensità», storia autobiografica: «È il film che inseguo da sempre, ora sono pronto», Valerio Cappelli