Pd, da «Cosa» a costituente: i (molti) nomi del travaglio a sinistra

di Tommaso Labate

Dalla Bolognina in poi per ogni crisi c’è stata una formula. In otto giorni trascorsi dalle elezioni politiche, il Partito democratico ha ricominciato a misurarsi col lessico che da almeno tre decenni accompagna il centrosinistra nel dibattito sulla sconfitta

«Scioglierlo», suggerisce Rosy Bindi. «Rifondarlo», sostiene Gianni Cuperlo. E visto che a volte non c’è miglior sintesi della somma, in omaggio alla teoria di Totò secondo cui alla fine è «la somma che fa il totale», Matteo Orfini le dice tutte e due assieme: «Scioglierlo e rifondarlo».

In otto giorni trascorsi dalle elezioni politiche, il Partito democratico ha ricominciato a misurarsi col lessico che da almeno tre decenni accompagna il centrosinistra nel dibattito sulla sconfitta. E così, tra l’harakiri dello «scioglimento» e l’ambizione della «rifondazione», eccole là, una dopo l’altra, le formule consumate di un partito e un’area alla ricerca di se stessi prima ancora che degli elettori.

A cominciare dalla «costituente», parola bivalente, una specie di double face, che può essere usata sia come aggettivo che come sostantivo. Il segretario uscente Enrico Letta, respingendo al mittente le richieste di scioglimento del Pd, la usa come aggettivo: «Faremo un congresso costituente». Ma c’è anche chi, come il deputato di lungo corso Roberto Morassut, una delle teste pensanti del partito capitolino, punta dritto sul sostantivo. «Serve un contenitore ampio», ha spiegato ieri mattina a Omnibus su La7, «progressista e di sinistra. E per farlo serve una costituente». La «costituente» che traccia un «percorso» alla fine del quale ci si ritrova tutti all’interno di un nuovo «contenitore» è una strada, a sinistra, nota sin dai tempi della svolta impressa da Achille Occhetto alla Bolognina, che segnò l’inizio della fine del Partito comunista italiano. «Percorso», «svolta» e persino «Bolognina» sono quindi tre parole che ritornano ciclicamente, ieri come oggi, nel dibattito a sinistra. Il filosofo Massimo Cacciari l’ha suggerito al Pd — «Al Pd serve un congresso come quello che fece Occhetto» — avanzando persino un’ipotesi di come si potrebbe chiamare il nuovo soggetto (lui suggerisce «Democrazia progressiva»). A quei tempi, in cui tutto era definito tranne il nome (il partito erede del Pci si sarebbe chiamato «Partito democratico della sinistra»), il punto d’approdo era genericamente indicato col nome «La cosa», come il documentario girato da Nanni Moretti nelle sezioni e come il film horror del 1982 diretto da John Carpenter che, guarda caso, aveva un finale tutt’altro che definito. L’esperienza, almeno nominalisticamente, a sinistra fu fortunata, tanto è vero che nel 1996, con Massimo D’Alema alla segreteria, si avviò il percorso de «La cosa 2», che la Treccani oggi spiega con queste parole: «Raggruppamento politico non ben definito nell’area della sinistra». Morale della favola? Il partito di allora, Pds (Partito democratico della sinistra), finì per perdere la «P» iniziale e rimase con due sole lettere, Ds (Democratici di sinistra).

La «P» di partito è tornata in auge con la fondazione del Pd, Partito democratico, oggi a più riprese messa in discussione. La fortunatissima epoca della botanica che riportò il centrosinistra al governo nel 2006 (c’era la Margherita di Francesco Rutelli, la Rosa nel Pugno di Marco Pannella, le liste unite dell’Ulivo di ispirazione prodiana e qualche animale come alleato, come il gabbiano simbolo del partito di Antonio di Pietro) restituisce dopo un decennio e mezzo la discussione sul «campo», altra parola chiave del lessico da sconfitta, a onor del vero rispolverata da Goffredo Bettini dopo l’infelice risultato delle elezioni del 2018. «Campo largo» sostengono Andrea Orlando e Francesco Boccia, aprendo al Movimento 5 Stelle. «Campo ristretto» dicono i contrari a un nuovo abbraccio con Giuseppe Conte. La «scissione», come dimostrano quelle praticate ai danni del Partito democratico da due suoi ex segretari (Bersani e Renzi), rimane sempre una prospettiva concreta per tutti coloro che non si ritrovano nel «progetto». Che tutti, ma proprio tutti, dicono di soffrire della sindrome «Ztl» (che sta per «Zona a traffico limitato»), nel senso che prende voti soprattutto nei centri storici delle grandi città. E poco importa che in provincia, dove i voti scarseggiano, la formula «Ztl» non sanno nemmeno che cosa voglia dire con precisione. Un po’ come il finale de «La cosa» di John Carpenter, la cui comprensione piena è rimasta inaccessibile ai più.

3 ottobre 2022 (modifica il 3 ottobre 2022 | 22:25)

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, 2022-10-03 21:27:00, Dalla Bolognina in poi per ogni crisi c’è stata una formula. In otto giorni trascorsi dalle elezioni politiche, il Partito democratico ha ricominciato a misurarsi col lessico che da almeno tre decenni accompagna il centrosinistra nel dibattito sulla sconfitta, Tommaso Labate

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