Energia
di Federico Fubini31 ago 2022
La scomparsa di Mikhail Gorbaciov ha commosso il mondo, o almeno l’Occidente. Esiste però almeno una lettura meno sentimentale per spiegare perché il suo progetto di apertura politica dell’Unione sovietica sia naufragato, mentre Vladimir Putin mantiene salda la propria presa sul potere dopo aver privato i russi dei diritti civili che essi avevano conquistato. Perché niente lascia capire la parabola del potere del Cremlino come un semplice numero: il prezzo internazionale del petrolio. Chi governa nel palazzo sulla Piazza Rossa è regolarmente indebolito dai suoi cali, rafforzato dagli aumenti e a volte incoraggiato a destabilizzare gli assetti geopolitici del mondo esterno se ciò aiuta a rendere più costosa l’energia fossile.
Non è vero solo in questo 2022. Era vero anche negli anni ’70, quando l’Unione sovietica di Leonid Breznev dette il proprio appoggio ai governi della Lega araba contro Israele anche per ragioni economiche. Da Mosca si puntava a sostenere la protesta contro lo Stato ebraico per ragioni in primo luogo politiche in chiave anti-occidentale; non solo, né principalmente, per assecondare e alimentare gli choc petroliferi all’inizio e alla fine del quel decennio. Ma l’aumento delle quotazioni sostenne economicamente l’Urss e dunque ne allungò la vita: la grande superpotenza negli anni ’80 sarebbe arrivata a produrre 12 milioni di barili al giorno, un livello da allora mai più toccato.
Nel 1970 il barile si vendeva ancora a due dollari (15 dollari attuali), mentre già nel 1974 la quotazione espressa in valori correnti era salita a 90 dollari. Quegli aumenti dettero all’Urss le risorse necessarie per mantenere in piedi un sistema stagnante e per integrarlo meglio nell’economia mondiale tramite l’export, malgrado il declino dell’era brezneviana. Senza gli choc di prezzo degli anni ’90 è dunque possibile che Gorbaciov non si sarebbe mai trovato a dover gestire le riforme, semplicemente perché l’Urss sarebbe crollata prima. A maggior ragione questo è vero perché i prezzi del gas, che la Russia aveva iniziato a esportare in Europa negli anni ’60, erano collegati a quello del greggio.
Di certo l’ultimo leader sovietico ha dovuto gestire una mano di carte sfortunata. Quando arriva al potere nel marzo del 1985 il barile è a 28 dollari, pari a 77 dollari attuali. Ma Gorbaciov nei suoi anni al potere non avrebbe più rivisto quotazioni del genere e, in parallelo, avrebbe assistito a un lungo declino della capacità produttiva del Paese a causa dell’obsolescenza degli impianti e la carenza di nuovi investimenti. Quando Gorbaciov lancia la Glasnost e la Perestroika nel 1986, il barile era ai minimi di 24 dollari espresso in dollari correnti; era ad appena era a trenta dollari nel 1988 ed era ancora ad appena a 50 quando la vecchia guardia tenta un colpo di Stato contro di lui che, nell’agosto del 1991, avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione sovietica. Quelle quotazioni erano sufficienti a realizzare dei profitti sulla vendita delle singole partite di petrolio. Ma non bastavano a finanziare il sistema sovietico abbastanza da prevenire l’impoverimento della popolazione e il collasso dell’apparato militare-industriale. Forse Gorbaciov avrebbe avuto migliore fortuna in un decennio di petrolio molto costoso, ma non nei suoi anni.
Lo stesso vale per Boris Yeltsin, il primo presidente della Russia post-sovietica al quale gli accordi di smembramento dell’Urss lasciarono la responsabilità per tutto il debito dell’ex superpotenza. In valori correnti di oggi, il barile quotava appena 26 dollari nel pieno delle privatizzazioni selvagge e della liberalizzazione dei prezzi nel 1994: il Paese non aveva abbastanza risorse finanziarie per attutire lo choc delle riforme economiche, le quali anche per questo in gran parte fallirono. Nel momento del default sovrano russo, nell’agosto del 1998, la quotazione internazionale del petrolio in dollari correnti era di appena 24 dollari e scese a venti alla fine di quell’anno. Poiché le fonti fossili pesavano per almeno metà delle entrate di bilancio russe, Eltsin non ebbe a disposizione i mezzi per contrastare la povertà dilagante nel Paese. La carenza di investimenti fu tale che la produzione russa di greggio collassa da 12 milioni di barili al giorno nel 1988 a sette milioni a metà degli anni ’90. Le entrate dello Stato ne risultarono drammaticamente ridotte.
In questo Putin è stato molto più fortunato. All’inizio del Duemila, quando il futuro dittatore si insedia al Cremlino, la quotazione del greggio è a 44 dollari in termini correnti. Ma da allora inizia a salire senza sosta per raggiungere i 188 dollari correnti nel 2008, alla vigilia della Grande recessione. La Russia putiniana ha potuto aumentare la produzione oltre i dieci milioni di barili al giorno (grazie agli investimenti esteri permessi dalle liberalizzazioni di Eltsin), mentre i prezzi internazionali elevati finanziano la crescita di una nuova classe media urbana e un fondo di stabilizzazione per i tempi duri.
La Russia così attraversa la Grande recessione relativamente intatta. Da allora il petrolio non sarebbe più sceso ai minimi degli anni ’80 e ’90. Putin ne approfitta per consolidare la sua presa sul potere, tanto quanto sulle risorse della Russia. Al punto che oggi mostra di aver assimilato in pieno la lezione sovietica in Medio Oriente durante gli anni ’70: la destabilizzazione geopolitica, oggi praticata dal Cremlino in Ucraina e in Europa, presenta il dividendo di aumentare la tensione sui mercati globali degli idrocarburi e le entrate del bilancio russo. Se solo Gorbaciov avesse goduto dei prezzi di Putin sul petrolio, forse il ricordo della sua figura in Russia oggi sarebbe migliore.
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, 2022-08-31 21:40:00, Niente spiega la parabola del potere del Cremlino come un semplice numero: il prezzo internazionale del petrolio. Chi governa nel palazzo sulla Piazza Rossa è regolarmente indebolito dai suoi cali e rafforzato dagli aumenti , Federico Fubini