Sono ben 79 le “autonomie” scolastiche che si perdono in Calabria, con il piano per il dimensionamento scolastico approvato dalla Giunta regionale. Una delle pagine più tristi della storia dell’istruzione pubblica nella nostra regione (peraltro, tra le regioni costrette a fare maggiori sacrifici in Italia).
Il dibattito di questi mesi è stato caratterizzato – e continua ad esserlo – da argomenti basati esclusivamente su criteri formali, su numeri e su cavilli normativi. Con uno slogan, reiterato da viale Trastevere quasi come un mantra: “ce lo chiede l’Europa”. Nei fatti, però, è la dimostrazione che in quella M di “merito”, introdotta nella denominazione del ministero, si riflettono in maniera distopica un’idea liberista della scuola e una visione aziendalistica del sistema dell’istruzione.
A mio avviso, ci sono due grandi equivoci, l’uno conseguenza dell’altro. Il primo: “riorganizzare” il sistema scolastico, in funzione della qualità dell’istruzione – secondo il PNRR -, non significa “ridimensionare”. Il secondo: “ridimensionare” non significa operare tagli orizzontali sull’intero territorio nazionale senza considerare le particolarità, le esigenze, i punti di forza e di debolezza, che contraddistinguono le diverse comunità locali (non è sufficiente preservare, in forma residuale, i comuni montali, le piccole isole e le aree geografiche con specificità linguistiche: si tratta, anche in questo caso, di criteri che corrispondono a dati puramente formali).
“Save the Children” nell’Atlante per l’infanzia (a rischio) 2023 ha lanciato l’allarme in maniera netta, sottolineando che le azioni di dimensionamento scolastico incideranno negativamente sulla realizzazione degli obiettivi dell’Agenda per il Sud in materia di contrasto alla dispersione scolastica e alla povertà educativa. Le parole sono chiare, e non ammettono fraintendimenti: “Un ostacolo alla realizzazione di questi obiettivi potrebbe essere, nei prossimi mesi, quello della perdita di dirigenti scolastici o amministrativi per via della misura di graduale riduzione dei dirigenti prevista dalla Legge di Bilancio 2023 che porterà le scuole di medie o piccole dimensioni a condividere un dirigente con effetti che potrebbero risultare preoccupanti sulla capacità della scuola di progettare, utilizzare le risorse, realizzare gli interventi, prolungare l’apertura e costruire patti educativi con gli altri attori del territorio”.
Insomma, siamo, ancora una volta, nel teatro dell’assurdo: una misura reclamata per la realizzazione del PNRR finirà per rappresentarne un freno, se non un passo indietro. D’altronde, una domanda sorge spontanea: si è davvero convinti che, almeno in Calabria, l’eliminazione di quasi ottanta autonomie scolastiche avrà come risultato una scuola qualitativamente più competitiva in Europa? Personalmente, nutro forti dubbi. Anzi, sono convinto del contrario. Lo spopolamento di una regione, in cui cresce in maniera preoccupante il fenomeno della denatalità e non si riducono le forme di marginalità culturale, sociale ed economica, non può essere risolto con la riduzione dei servizi. Il principio sembra evidente, lapalissiano, a meno di non ritenere le scuole alla stregua di apparati, o di carrozzoni, burocratici. Un’idea, quest’ultima, che nulla ha a che vedere con la nobile tradizione scolastica italiana e – sia consentito – calabrese.
Ci si è adeguati, negli ultimi decenni, al progressivo smantellamento della scuola pubblica, con direttori didattici e presidi che sono diventati “dirigenti scolastici”, manager di aziende più o meno complesse, ora pronti ad essere candidati al ruolo di “super-manager”. La scuola democratica si trasforma, passo dopo passo, in una scuola monocratica. Contano soltanto numeri, bilanci, adeguamento e riduzione dei costi. In tutto in linea con una più generale visione del potere che guarda al suo esercizio come ad un’imposizione, quanto più possibile arbitraria, della volontà (personale, s’intende). Il principio democratico è sacrificato sull’altare dell’efficienza economica e della razionalizzazione dei costi. Ecco, la teoria dell’uomo forte (e solo) al comando diventa – ahinoi! – realtà. Così, alla politica locale altro non spetta che adeguarsi e accontentarsi, non più capace di orientare lo sviluppo territoriale ma soltanto in grado di mettere pezze alle decisioni del governo centrale. In questo quadro, non c’è spazio per l’idea secondo la quale le “piccole scuole” rimangono un “presidio comunitario”, come sottolinea ancora l’atlante di “Save the Children”: questa idea sembra essere solo un’ingenua e illusoria speranza.
E allora mentre in queste ore si è pronti quasi a brindare, accaparrandosi meriti e lamentando demeriti, per un plesso in meno o in più accorpato ad un altro, ci si ricordi – almeno questo – che nel silenzio e nell’indifferenza generale è stato appena svenduto il futuro. Il futuro nostro e dei nostri figli. Anche quello delle donne e degli uomini che ancora credono che il riscatto culturale e sociale del Meridione passa da una scuola aperta, libera, inclusiva e rinnovata, che metta da parte le preoccupazioni numeriche e torni a guardare alle persone, nello spirito della Costituzione repubblicana.
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