Dal tramonto all’alba nella campagna padana a fari accesi tra mais e nutrie. «Dove sono le bufale?»

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di Beppe Severgnini

Al volante della Lancia Appia del ‘57. La siccità, i contadini in ansia (e una poesia)

Il sole del tramonto rimbalza allegro sulla Lancia Appia, portiere a salotto, cambio al volante, interno in panno. Mio padre l’ha acquistata nel 1957: il primogenito, nella Fiat Topolino a due posti, non ci stava. Non ho resuscitato l’auto per il giro che sto per raccontare. Per resuscitare qualcuno o qualcosa, occorre che sia morto, mentre l’Appia è in forma smagliante. Dopo papà, l’ha usata lo zio Rino; poi, da ragazzo, l’ho guidata io. Poi mio fratello Francesco, poi mio figlio Antonio. La Lancia grigia brilla e scalpita: la campagna cremasca è casa, la conosce bene. L’idea è raccontare una notte in Italia. Non quella del divertimento, quella del lavoro. Un lavoro importante, quello dei campi. Molti cittadini — l’uomo d’affari nel suo buon ritiro, l’intellettuale neo-bucolico — non lo capiscono. Ne hanno una visione troppo cupa o troppo romantica. Vedono le nutrie nei campi e lungo i fossi, le trovano simpatiche. Ditelo a un agricoltore: vi insegue col rastrello e fa bene. Le nutrie distruggono gli argini, infestano i terreni: sono un disastro, come vedremo.

Il mais in anticipo

Guido l’Appia attraverso il Moso, a nord-ovest di Crema. Molto tempo fa era un acquitrino, parte del lago Gerundo, che univa il fiume Serio e il fiume Adda. Il nome Gerundo deriva da géra (ghiaia). Oggi è verde, piatto, basso, percorso da un reticolo di fossi per l’irrigazione: i primi vennero scavati dai monaci benedettini, che bonificarono la zona a partire dal XII secolo. Passo dall’azienda «Bosco», dove i trattori si arrampicano sulle trincee — silos orizzontali — per comprimere il foraggio. Porterò Cesare Baldrighi a Capergnanica, dove stanno già raccogliendo il mais con quindici giorni di anticipo, caldo e siccità hanno suggerito di accelerare i tempi. Il sole basso entra nell’auto grigia, che caracolla sugli sterrati. Sembra minuscola, di fianco alle colossali falcia-trincia-caricatrici: tagliano fino a dieci file di mais, triturano insieme piante e pannocchie, depositano il trinciato nel carro che segue. Appartengono a contoterzisti. Sono macchine costose — centinaia di migliaia di euro — e devono restare in attività, per essere redditizie. Cesare Baldrighi è un agricoltore, un allevatore e presidente di Origin Italia, che tutela le produzioni a Indicazione Geografica. Ci conosciamo. Abbiamo preso un appuntamento, altri sono allineati nella notte: sbucare dal buio, nell’aia di una cascina, con un’Appia e un fotografo potrebbe allarmare. Non ci prenderebbero per ladri. Per matti, sì.

Il vitellino

Riparto, con i fari accesi. Passo da Cremosano, arrivo a Capralba, cremasco del nord. Mi fermo alla trattoria Severgnini, che sta per compiere cinquant’anni di attività. «Severgnini dal 1973!» recitano le magliette: mi fanno capire, con un sorriso, che io ho iniziato dopo (e non so neppure fare la pizza). Proseguo per Torlino Vimercati e Azzano, dove mi aspetta la famiglia Stanga, riunita sotto il portico della cascina, lungo un tavolo di cedro. Marito (Ezio), moglie (Maria Luisa), uno dei figli (Mattia), un agricoltore confinante (Ferdinando Ercoli), che è pure consuocero. C’è movimento: una vacca ha appena partorito, e un vitellino — com’è giusto — ha la precedenza su un giornalista. Andiamo a vederlo. Dopo dieci minuti è già in piedi, casca e si alza. Poi barcolla, casca di nuovo e si rialza. Carlo Calenda non saprebbe fare di meglio.

Bruno l’agronomo

Mi accompagna Bruno Moretti, il pontefice degli agronomi cremaschi. Chiama per nome rogge, fondi e agricoltori; per distrarsi, la sera, guarda i talk-show politici in tv e s’arrabbia con ipocriti e urlatori. Li vedrebbe bene a pulire le stalle: ma scivolerebbero sul letame. Tre argomenti ricorrono nelle conversazioni. La burocrazia agricola e veterinaria, sempre più complessa e occhiuta («Manca un cartello, multa di trecento euro»). Il prezzo del mais, passato in un anno da 18 e 38 euro al quintale («Speculazioni internazionali, l’Ucraina non c’entra»). E la siccità, che porta a un aumento delle aflatossine. Se finiscono nell’alimento degli animali e poi nel latte, sono guai. Poi ci sono le nutrie, per cui gli agricoltori provano una fiera antipatia. Non solo distruggono gli argini dei fossi. Se sono nascoste nel granturco e vengono triturate insieme alla pianta, si forma il botulino nel foraggio e può uccidere le bestie. Andiamo, nel buio, a vedere i terreni dietro la cascina. I fari potenti del pick-up — non quelli fiochi dell’Appia, buoni forse per una seduta spiritica — illuminano i campi gialli: l’estate li ha bruciati. Centinaia di pertiche. Questi prati stabili — alcuni hanno più di un secolo — sono l’orgoglio delle nostre campagne: producono spontaneamente una varietà d’erbe che lascia gli americani in visita a bocca aperta. Quest’anno andranno riseminati. Dal buio sbuca il «Rotolone», un’enorme macchina per l’irrigazione: prende l’acqua con una turbina dal fosso — quando ce n’è — e rilascia fino a trecento metri di tubo. Può essere controllata a distanza con una app nel telefono. Azzurra, lucida, nuova: un’astronave scesa tra i campi dove, sei secoli fa, i Benzoni, signori di Crema, si barcamenavano tra veneziani e milanesi.

Vacche e Transponder

Il prossimo appuntamento, intorno alle due di notte, sarebbe a Izano, distante venticinque chilometri. Azienda «Gerardo», che produce mozzarelle. Ma chiama il titolare, il signor Massari: le bufale hanno sfondato un recinto, sono scappate nei campi, non è il caso. Provo a riposare un paio d’ore, poi riaccendo l’Appia. Sono le quattro del mattino. «Ora dalla notte al giorno./ Ora da un fianco all’altro. / Ora per trentenni. / Ora rassettata per il canto dei galli. / Ora in cui la terra ci rinnega./ Ora in cui il vento soffia dalle stelle spente./ Ora del chissà-se-resterà-qualcosa-di-noi. / Ora vuota. / Sorda, vana. / Fondo di ogni altra ora. / Nessuno sta bene alle quattro del mattino». Mi domando come verrebbe accolto un visitatore che si presenta in cascina citando Wislawa Szymborska. Meglio non rischiare. Mi limito a salutare i proprietari dell’azienda Premoli, cascina Obizza, Bottaiano. Mi aspettano due titolari: Emilio, sessant’anni, e il nipote Giovanni, vent’anni. Mille vacche da latte. Il ragazzo, abituato ai trattori, guida l’Appia, deve sembrargli un giocattolo. Grandi ventole alternano acqua vaporizzata e aria fresca sul bestiame. Parliamo di benessere animale. Giovanni mi parla del Transponder, un nuovo collare israeliano: in ogni momento, da un computer, si possono controllare la temperatura, la ruminazione, ogni attività dell’animale.

La bandiera

A Bottaiano incontro anche Alain Pellizzari («Alla mamma piaceva Delon»). L’azienda è grande, 220 ettari, 2.800 capi di bestiame. Su un pennone, invece dell’immagine di una frisona, sventola una bandiera del Milan (scolorita per il sole e la pioggia, o è il simbolo della gloria passeggera?). Tredici dipendenti, cinque nipoti: due, adolescenti, passano ridendo a bordo della motoscopa che serve per spingere gli alimenti nella mangiatoia. Ricordo la cascina dei nonni a Offanengo, negli anni Sessanta, i nomi delle vacche scritti in gesso su una lavagnetta, i mungitori con lo scagnel, lo sgabello legato in vita, accucciati di fianco agli animali. Si chiamavano bergamini perché scendevano dalle valli bergamasche. Oggi, nelle stalle del cremasco, lavorano soprattutto indiani e macchinari. I bovini lo sanno: si mettono in fila e attendono il turno di mungitura con aria filosofica. Pellizzari sostiene che la manodopera sarà, sempre di più, il problema delle aziende agricole: «I figli dei lavoranti indiani — ragazzi nati in Italia — non hanno più voglia di fare questo mestiere: orari infami, troppa fatica. I giovani italiani, non parliamone».

«Irrigate di notte?»

All’alba passo a trovare Agostino Zanesi a Romanengo. Terra buona qui, mi dice, ma il mais quest’anno è trenta centimetri più basso. Produce tutto il foraggio che consuma per l’allevamento; in molte aziende agricole, invece, una parte viene acquistata. Ci conosciamo da anni. Mi racconta come sia difficile far capire agli amici in paese — se non lavorano nell’agricoltura — cosa siano i coli, gli invasi o la ruota dell’acqua. «Sono sorpresi. “Ma come, irrigate anche di notte?”. L’acqua scende da nord a sud e non aspetta, spiego: bisogna prenderla quando c’è. Ma non sempre capiscono» dice, mentre la luce sale dalla parte di Brescia. Prima di rientrare, intorno alle sette, decido di passare comunque dall’allevamento di bufale, tra Offanengo e Izano. Sembrano rientrate nei recinti. Mi guardano, scure e perplesse, le corna ricurve. In giro non c’è nessuno. Dico ad alta voce: «Un giornalista deve controllare le bufale, no?». La battuta è pessima e io sono molto stanco. L’Appia, dopo 92 chilometri, mi riporta a casa, nel sole basso e perfetto del giorno che comincia.

12 agosto 2022 (modifica il 12 agosto 2022 | 22:37)

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, 2022-08-12 20:46:00, Al volante della Lancia Appia del ‘57. La siccità, i contadini in ansia (e una poesia), Beppe Severgnini

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