Alla scoperta dei cavalli del parco dell’Aveto, tra gli ultimi «selvaggi» d’Italia

Alla scoperta dei cavalli del parco dell’Aveto, tra gli ultimi «selvaggi» d’Italia

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Questi animali sono l’eredità di cavalli domestici abbandonati all’inizio degli anni Novanta nell’entroterra ligure, che si sono adattati a vivere in completa autonomia. Occorre non solo tutelarli, ma anche promuovere la ricerca scientifica sulla biodiversità, il monitoraggio degli habitat e il miglioramento della conflittualità tra popolazione locale e fauna selvatica

Il cielo minaccia pioggia quando partiamo da Borzonasca, piccolo comune di meno di duemila abitanti dell’entroterra di Chiavari. E, in effetti, qualche goccia cadrà lungo il percorso, utile ad attutire i suoni ed evidenziare i profumi del panorama che ci circonda. Ad attenderci a mille metri – dopo aver pagato il permesso di transito – il lago di Giacopiane (1.015 metri s.l.m.), o meglio, i laghi, perché sono due gli invasi creati artificialmente dall’uomo. Dopo una decina di curve, circondati da boschi di faggi e castagni, zone umide (torbiere), boschi di quercia, lande e praterie, arriva la prima sorpresa. Due maschi adulti, lontani da occhi indiscreti, brucano l’erba circondati da boschi di faggi e castagni. Non si tratta di «semplici» cavalli, ma di due esemplari di cavalli selvaggi dell’Aveto, tra gli unici veri cavalli “rinselvatichiti” esistenti nell’Italia continentale (in Sardegna troviamo il cavallino della Giara, in Sicilia quello di Sanfratellano). «Selvatico è l’animale mai addomesticato dall’uomo nella sua storia evolutiva, come nel caso della volpe o in parte del lupo, quello non portato al cane. I domestici, li conosciamo tutti, sono animali come il cane, il gatto o la vacca. Rinselvatichiti – o “rewild” – è il termine giusto per indicare gli animali che appartengono a specie domestiche ma che, per diversi motivi, vivono liberi da più generazioni, hanno perso il contatto con l’uomo, presentano caratteristiche stabili e vivono in un’area definita. È il caso dei cavalli dell’Aveto, che noi chiamiamo “selvaggi” per usare un termine più suggestivo», spiega Evelina Isola, la nostra guida.

Naturalista, genovese classe 1976, laureata in Scienze naturali, con dottorato in Scienze della Terra, si occupa di divulgazione scientifica e didattica ambientale, collaborando con parchi naturali e scuole. Tra il 2011 e il 2012, insieme a Paola Marinari — medico genovese ed ex assessore al turismo del comune di Moneglia —, ha dato vita al progetto I cavalli selvaggi dell’Aveto — Wildhorsewatching che fa di questi animali una risorsa ambientale e turistica. Nel 2019 è stata poi fondata l’associazione . «Selvatico – infatti – è l’animale che appartiene a una specie non addomesticata come cervi, lupi e volpi, indicate nella legge dell’11 febbraio 1992 “in materia di norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” che ne regola la caccia. Si definiscono allo stato brado, invece, gli animali domestici che hanno un padrone e vengono lasciati, in gruppi più o meno numerosi, all’aperto, senza ricoveri, ma non perdono il contatto con l’uomo: pensiamo a bovini e suini, a volte allevati allo stato brado», chiarisce. I cavalli dell’Aveto vivono senza contatti con l’uomo dall’inizio degli anni Novanta, alla morte del loro padrone, e si sono riadattati all’ambiente: comprendono generazioni nate allo stato libero e hanno ripreso il modo di vivere del cavallo selvatico che in natura non esiste più. «Non hanno bisogno dell’uomo, trovano sostentamento in natura — chiarisce Isola —. L’ultimo esemplare di cavallo euroasiatico, il Tarpan (Equus ferus ferus) si è estinto tra il 1918 e il 1919 in uno zoo in Ucraina. Da un recente studio pubblicato su Nature nel 2018 emerge – infatti – che il genoma del cavallo di Przewalski (Equus ferus przewalski), il cavallo selvatico della Mongolia, non presenta in realtà le stesse caratteristiche del genoma dei suoi antenati vissuti prima dell’addomesticazione (più di 5mila anni fa)».

Lasciati allo stato selvatico, si sono riprodotti liberamente, il loro numero è passato da una decina di capi a una novantina. L’ultimo censimento realizzato dalla dottoressa Martina Piombo, laureata in Scienze Zootecniche all’università di Parma con un lavoro sull’epidemiologia parassitaria dei cavalli, oggi guida di Wildhorsewatching, ne ha contati tra gli 87 e i 93, per una densità di 2,64 individui per 100 ha (con questa densità ogni cavallo ha a disposizione 50 ha di terreno): presto ne verrà effettuato uno nuovo per verificare perdite o nascite. «Presentano masse muscolari possenti e articolazioni salde e robuste, l’altezza al garrese misura 1,50-1,60 circa, il mantello può essere baio (scuro e chiaro), sauro o morello. Grazie a notevoli capacità adattative, hanno la possibilità di accumulare molta energia nel periodo primaverile ed estivo, grazie ai germogli verdi. Nel periodo più freddo si nutrono di erba, foglie, rami secchi e bacche di Rosa canina», racconta Piombo nel suo lavoro di tesi. Solo una buona conoscenza di questi animali può aiutare a relazionarsi con loro, per avere un rapporto vero e profondo, non come talvolta all’interno di un maneggio. «I cavalli dell’Aveto possono magari incutere timore come erbivori dalla grossa stazza, ma non sono portati a scontrarsi con l’uomo di fronte al quale preferiscono la fuga», aggiunge Piombo che ci accompagna. «Ho studiato la loro epidemiologia parassitaria in confronto a quella dei cavalli domestici italiani e inselvatichiti. Tra le esperienze più belle ricordo un avvistamento invernale in quota. Dobbiamo proteggerli come risorsa biologica».

Come i loro antenati selvatici, sono divisi in bande o bands in cui una femmina alfa, non sempre la più anziana, ha un ruolo dominante per le competenze nella ricerca di fonti di cibo e acqua o per la capacità di indicare le eventuali vie di fuga. C’è poi uno stallone maschio con compiti riproduttivi o di sentinella. A un certo momento giovani maschi maturi sessualmente lasciano il gruppo d’origine per andare a formarne di nuovi, delle «bachelor bands di soli scapoli, con femmine di altre bande. Ci imbattiamo, proseguendo l’escursione, in un secondo gruppo di cavalli selvaggi, che osserviamo in silenzio e mantenendo la giusta distanza: stanno riposando tra i prati, si abbeverano alle pozze d’acqua (insieme ad alcune vacche che vediamo ai bordi del lago, abbandonate in estate a valle), si nascondono nelle faggete, al riparo da caldo e insetti. Questi animali non solo si sono adattati a vivere in completa autonomia, ma ricoprono anche un ruolo fondamentale per preservare gli equilibri dell’habitat in cui vivono, all’interno del Parco dell’Aveto, poco più di 3mila ettari di territorio protetto che interessa tre valli, la Val d’Aveto, la Val Graveglia e la Valle Sturla, all’interno del quale sono note ben 39 entità floristiche endemiche come la Primula impolverata, il raponzolo a foglie di scorzo-nera, la viola di Cavillier, la costolina appenninica e la ginestra di Salzmann. «Brucando vegetazione di scarsa qualità, rifiutata dai bovini, i cavalli migliorano la biodiversità. Mentre il cavallo bruca l’erba spostandosi (pascolamento estensivo), e lascia quindi in vita la parte più bassa della vegetazione, il bovino bruca da fermo: il cavallo fa quello che il contadino un tempo faceva con la falce. Il loro è quindi un ruolo conservativo, perché non esauriscono mai completamente una risorsa prima di spostarsi», sottolinea Isola.

Proseguiamo il giro e dall’altra parte del lago notiamo un puledro dal manto chiaro che si confonde con i colori delle foglie autunnali depositate sul terreno. Purtroppo si è tornati recentemente a parlare di questa specie non come patrimonio, ma come minaccia. Sette esemplari sono stati sottratti ai loro pascoli in altura, caricati su un camion, con il pretesto del «pericolo» per la sicurezza pubblica, e chiusi in un recinto a valle, pronti per diventare carne da macello (come già successo anche in passato). Tra loro anche Sole, gravida e cieca da un occhio. «Grazie alla mobilitazione, gli esemplari sono stati liberati dal recinto che li imprigionava», raccontano Riccardo Rogina e Laura Crotti, marito e moglie, educatori cinofili e tecnici-istruttori di equitazione responsabile, soci dell’associazione ReWild Liguria che ci accompagnano nel viaggio, operativi negli spostamenti dei branchi che scendono nelle zone abitate verso quote più elevate, e altri interventi. «Purtroppo negli anni sono insistenti le voci raccolte in merito a prelievi abusivi di cavalli inselvatichiti, puledri in particolare, e macellazione clandestina, mai prese seriamente in considerazione dagli organi di controllo». Compiendo monitoraggi dal 2015 a oggi, sappiamo che quei cavalli non sono mai scesi a quote basse e che quindi sono stati prelevati in altura. Ci chiediamo quale fosse lo scopo di allontanarli dal loro ambiente naturale. «Il basso numero di puledri riscontrato e la loro scomparsa nel corso dei mesi avvallano l’ipotesi di bracconaggio e confermano anche le segnalazioni da parte dei residenti», aggiunge Isola. «I cavalli sono animali sociali e la separazione di alcuni membri o la cattura/allontanamento degli individui guida (femmine alfa, stallone dominante) può provocare la dispersione degli altri individui che, privi di una guida, iniziano a vagare senza meta». La discesa nei centri abitati può essere causata, soprattutto se si verifica non nella cattiva stagione, dalla discesa di individui domestici abbandonati seguiti da alcuni rimasti senza guida, dalla ricerca di risorse e dal clima più mite.

I cavalli, infatti, secondo la legge italiana sono a oggi un animale domestico, da reddito, non d’affezione: destinati quindi allo sport o al macello. Occorre, come succede in altre parti d’Europa, il riconoscimento per questo branco dello stato “rewild” per potere mettere a punto strategie e strumenti di salvaguardia e gestione sostenibili, e per raggiungere una convivenza compatibile con le realtà rurali circostanti. Grazie alla pressione di numerose associazioni, gli esemplari catturati sono stati liberati e la regione si è impegnata a tutelarli come unicum. Non è certo la prima volta che ciò accade: il 28 luglio 2020 il Consiglio Regionale della Liguria aveva approvato all’unanimità un ordine per il riconoscimento dei Cavalli Selvaggi dell’Aveto come «popolazione protetta», poi decaduto alla scadenza della legislatura e con le nuove elezioni. «Non abbiamo bisogno di proclami, ma di impegni concreti. Abbiamo perso la capacità di vivere con altre specie ed ecco che la minima presenza animale ci crea paura e disagio, e fa parlare alcuni di presunti problemi e danni causati dagli animali. Ai privati sono stati offerti dei dissuasori – barriere con “passaggi canadesi”, oltre a dissuasori sonori e d’altro tipo – ma alcuni non hanno accettato. Alcuni lamentano che i cavalli selvaggi esauriscono i pascoli destinati alle greggi, ma questo non ha riscontro nella realtà», conclude Isola. La mancanza di conoscenza e la diffidenza da parte della popolazione locale hanno messo più volte in pericolo i cavalli, portando anche a episodi di bracconaggio. La giusta coesistenza tra fauna e popolazione rurale può portare alla loro tutela. — Reportage di Silvia Morosi e Nicola Vaglia

12 novembre 2022 – Aggiornata il 14 novembre 2022 , 18:00

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, 2022-11-14 17:00:00, Questi animali sono l’eredità di cavalli domestici abbandonati all’inizio degli anni Novanta nell’entroterra ligure, che si sono adattati a vivere in completa autonomia. Occorre non solo tutelarli, ma anche promuovere la ricerca scientifica sulla biodiversità, il monitoraggio degli habitat e il miglioramento della conflittualità tra popolazione locale e fauna selvatica,

Pietro Guerra

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