Difesa Ue: siamo i secondi al mondo come spesa, ma non siamo una potenza militare

Difesa Ue: siamo i secondi al mondo come spesa, ma non siamo una potenza militare

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I Paesi dell’Unione Europea hanno deciso di aumentare le spese militari. Bisogna mantenere gli impegni presi durante il vertice Nato tenuto in Galles nel settembre 2014 e che stabiliva le regole per i Paesi aderenti: destinare alla Difesa il 2% del Pil e di impegnare il 20% del budget all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti. Nel 2020 i paesi Ue tutti insieme nel 2020 avevano raggiunto quota 227,8 miliardi di dollari, pari all’1,5% del Pil, con un aumento della spesa totale del 21% rispetto al 2015. Nello stesso periodo gli Stati Uniti vantavano 766 miliardi di spesa e 1,35 milioni di soldati, la Cina 146 miliardi e 2,25 milioni di unità e la Russia 67 miliardi per 900 mila unità. Con la nostra spesa e con un milione e mezzo di soldati siamo virtualmente i secondi al mondo a livello miliare, ma non siamo una potenza mondiale perché non abbiamo una forza armata e una Difesa comune.

Ognuno fa da sé, ma nessuno è autonomo

Oggi ogni Paese fa da sé ma, siccome in caso di aggressione nessuno è in grado di difendersi da solo, i trattati prevedono che se uno Stato membro viene attaccato gli altri sono tenuti a prestargli aiuto. Lo dicono l’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea (Tue) e il 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) sulla «politica di sicurezza e di difesa comune». Ma l’articolo 42 pone anche un limite: la sua attivazione non deve pregiudicare «il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri». Ovvero sono esclusi dalla cooperazione gli Stati storicamente neutrali, quali Danimarca, Austria, Svezia. Per tutti gli altri l’obbligo c’è, ma ognuno può scegliere come aiutare, per esempio decidere di non inviare forze in campo, ma limitarsi a fornire armi, intelligence, rifornimenti. Come stabilito anche da una decisione del Consiglio europeo del 2009, secondo cui «spetta agli Stati membri (…) determinare la natura della propria assistenza da fornire a uno Stato membro che sia stato oggetto di un attacco terroristico o vittima di un’aggressione armata sul proprio territorio». A questo si sovrappone l’appartenenza alla Nato che, invece, obbliga alla difesa collettiva se un membro viene attaccato (articolo 5), ed è l’unica ad avere una difesa aerea sovranazionale e coordinata. Ma non vale per Austria, Cipro, Finlandia, Svezia, Irlanda e Malta, poiché pur essendo membri dell’Unione, non aderiscono all’Alleanza (anche se la Finlandia in queste ore ci sta ripensando).

Cosa prevedono i trattati

La «progressiva formazione di una politica di sicurezza comune» che potesse poi condurre una «difesa comune» è prevista dall’articolo 42 del Trattato di Maastricht e si è più volte tentato di metterla in atto. Ne aveva parlato la cancelliera Angela Merkel nel marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Unione, quando era presidente del Consiglio dell’Unione europea. Lo ha rilanciato il 14 luglio 2007 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy durante la celebrazione della presa della Bastiglia. Nel settembre 2021, dopo la crisi in Afghanistan, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen era tornata sul punto per «dare più stabilità al nostro vicinato e nelle altre regioni» perché «se non si interviene in tempo nelle crisi all’estero, le crisi arriveranno da noi». Di fatto l’Unione Europea oggi non ha nemmeno una forza permanente che possa intervenire nelle situazioni di crisi al di fuori dei propri confini, nonostante i Trattati lo prevedano espressamente per adempiere alle Missioni Petersberg, introdotte dal Trattato di Amsterdam del 1997 che ha previsto l’embrione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc) con l’istituzione della figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza. Si tratta di missioni umanitarie e di soccorso, antiterrorismo, di ispezione sul rispetto dei trattati internazionali sul disarmo, stabilizzazione post-conflitto, mantenimento della pace e missioni di gestione delle crisi, fino a quelle di peace-keeping, peace-building, peace-enforcement.

Cosa esiste oggi

Per adempiere ai Trattati si era disegnata, con gli accordi di Helsinki del 1999, una forza permanente di reazione rapida di almeno 60mila uomini (con altri 120mila per i ricambi) che potesse essere impegnata in zone di crisi fino a 4.000 km da Bruxelles. Doveva nascere entro il 2003, ma è rimasta lettera morta, e al suo posto sono invece nati nel 2007 i Battlegroups: sono 2 gruppi da 1500 uomini sempre operativi che si alternano a rotazione tra i Paesi membri ogni sei mesi, per un totale di 3.000 unità. Sono costituiti attorno a un battaglione di fanteria supportato da unità di trasporto, servizi e sostenimento in operazione. Dovrebbero essere pronti a partire entro 10 giorni dalla decisione politica, con un’autosufficienza operativa di almeno 30 giorni, ma ad oggi non sono mai stati schierati in alcuna operazione internazionale a causa della farraginosità dell’utilizzo, del numero troppo esiguo per le crisi internazionali e dalla mancanza di un budget europeo dedicato. I Paesi europei, però, partecipano a missioni all’estero. Oggi quelle attive sono in Bosnia e Kosovo, quelle africane di addestramento truppe locali (in Somalia, Mali, Repubblica Centrafricana, Niger), quelle di monitoraggio (Georgia, Iraq, Libia, Territori Palestinesi, al confine tra Moldova e Ucraina), di assistenza di polizia (Albania) e le due missioni di pattugliamento navale nel Mediterraneo e in Somalia. La partecipazione però è volontaria e non esiste una linea di comando che risponda direttamente alle istituzioni europee: ogni forza armata risponde allo Stato maggiore Difesa del proprio Paese, creando confusione.

I tentativi di Eurocorps ed Eurofor

Gli unici tentativi di costruire una forza comune indipendente dai singoli stati sono quelli di Eurocorps ed Eurofor. Eurocorps nasce nel 1992 e comprende reparti provenienti da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Spagna. Il Comando ha sede a Strasburgo e nel suo Stato Maggiore ci sono anche ufficiali provenienti da Grecia, Italia, Polonia e Turchia. Conta 1.300 uomini e ha partecipato a missioni all’estero in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Mali, ma da sette anni svolge solo compiti di sicurezza al Parlamento europeo a Strasburgo.

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare.

Eurofor, invece, era una forza multinazionale europea a intervento rapido composta dai reparti di Francia, Italia, Spagna e Portogallo. Nata nel 1995, con base a Firenze, aveva come compito proprio l’espletamento delle Missioni Petersberg e rispondeva direttamente al Comitato militare dell’Unione europea. Fu impiegata con successo in Albania, Macedonia, Ciad e Repubblica Centrafricana, ma venne chiusa il 2 luglio 2012 dopo il ritiro della Spagna, preoccupata dal vento indipendentista della Catalogna.

La futura forza armata europea

Secondo gli analisti il primo passo sarebbe quello di dare vita agli accordi di Helsinki con una forza di intervento rapido, distaccando permanentemente proquota le unità dalle forze armate dei singoli Paesi membri, con Francia, Italia, Germania e Spagna protagonisti. Questo dovrebbe essere il nucleo centrale da cui poi sviluppare una Forza Armata comune di difesa che, secondo uno studio commissionato dal Parlamento Europeo nel 2018, permetterebbe di rendere più efficienti le spese militari e di risparmiare 29,5 miliardi di dollari all’anno solo nei doppioni. Infatti, siccome ogni paese fa da sé, abbiamo sistema di difesa (antimissile, antiaereo) sei volte di più che negli Stati Uniti e molte sono inutili; 154 tipologie diverse di mezzi armati e 17 tipi di veicoli corazzati. Per gli aerei da combattimento ci sono quattro diversi progetti a livello europeo. Uno in corso dal 2019 tra Francia, Germania e Spagna; quello per gli F35 che comprende Italia, Paesi Bassi e Regno Unito; quello per lo sviluppo del caccia Tempest attivo dal 2019 tra Italia, Svezia e Regno Unito; infine quello svedese del jet Gripen, utilizzato anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia.

Inoltre ogni Paese tende a favorire l’industria militare nazionale spesso statale (Leonardo e Fincantieri in Italia, Thales in Francia, Navantia in Spagna), che continua a sviluppare iniziative separate e su scala più ridotta. Questo spiega perché il mercato della difesa europeo è così frammentato. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa (Eda), nel 2020 gli stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi di euro su progetti comuni.

Il nodo politico

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare.

La Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), introdotta dal Trattato di Maastricht per consentire all’Ue una posizione coordinata e più forte a seguito dei cambiamenti geopolitici seguiti alla fine della guerra fredda, e poi rinominata Politica Comune di Sicurezza e Difesa (Pcsd), è gestita dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Dal 2011 questa figura è anche al vertice del servizio diplomatico della UE, e della Agenzia Europea della Difesa (Eda). Ma i suoi poteri sono debolissimi. Principi, le decisioni vengono prese dal Consiglio dei Ministri e adottate solo all’unanimità. Nella pratica vuol dire non prendere posizioni in tema di politica estera, perché fra i 27 paesi membri, quasi mai sono tutti d’accordo.

13 aprile 2022 | 06:43

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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, 2022-04-13 06:30:00,

I Paesi dell’Unione Europea hanno deciso di aumentare le spese militari. Bisogna mantenere gli impegni presi durante il vertice Nato tenuto in Galles nel settembre 2014 e che stabiliva le regole per i Paesi aderenti: destinare alla Difesa il 2% del Pil e di impegnare il 20% del budget all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti. Nel 2020 i paesi Ue tutti insieme nel 2020 avevano raggiunto quota 227,8 miliardi di dollari, pari all’1,5% del Pil, con un aumento della spesa totale del 21% rispetto al 2015. Nello stesso periodo gli Stati Uniti vantavano 766 miliardi di spesa e 1,35 milioni di soldati, la Cina 146 miliardi e 2,25 milioni di unità e la Russia 67 miliardi per 900 mila unità. Con la nostra spesa e con un milione e mezzo di soldati siamo virtualmente i secondi al mondo a livello miliare, ma non siamo una potenza mondiale perché non abbiamo una forza armata e una Difesa comune.

Ognuno fa da sé, ma nessuno è autonomo

Oggi ogni Paese fa da sé ma, siccome in caso di aggressione nessuno è in grado di difendersi da solo, i trattati prevedono che se uno Stato membro viene attaccato gli altri sono tenuti a prestargli aiuto. Lo dicono l’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea (Tue) e il 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) sulla «politica di sicurezza e di difesa comune». Ma l’articolo 42 pone anche un limite: la sua attivazione non deve pregiudicare «il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri». Ovvero sono esclusi dalla cooperazione gli Stati storicamente neutrali, quali Danimarca, Austria, Svezia. Per tutti gli altri l’obbligo c’è, ma ognuno può scegliere come aiutare, per esempio decidere di non inviare forze in campo, ma limitarsi a fornire armi, intelligence, rifornimenti. Come stabilito anche da una decisione del Consiglio europeo del 2009, secondo cui «spetta agli Stati membri (…) determinare la natura della propria assistenza da fornire a uno Stato membro che sia stato oggetto di un attacco terroristico o vittima di un’aggressione armata sul proprio territorio». A questo si sovrappone l’appartenenza alla Nato che, invece, obbliga alla difesa collettiva se un membro viene attaccato (articolo 5), ed è l’unica ad avere una difesa aerea sovranazionale e coordinata. Ma non vale per Austria, Cipro, Finlandia, Svezia, Irlanda e Malta, poiché pur essendo membri dell’Unione, non aderiscono all’Alleanza (anche se la Finlandia in queste ore ci sta ripensando).

Cosa prevedono i trattati

La «progressiva formazione di una politica di sicurezza comune» che potesse poi condurre una «difesa comune» è prevista dall’articolo 42 del Trattato di Maastricht e si è più volte tentato di metterla in atto. Ne aveva parlato la cancelliera Angela Merkel nel marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Unione, quando era presidente del Consiglio dell’Unione europea. Lo ha rilanciato il 14 luglio 2007 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy durante la celebrazione della presa della Bastiglia. Nel settembre 2021, dopo la crisi in Afghanistan, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen era tornata sul punto per «dare più stabilità al nostro vicinato e nelle altre regioni» perché «se non si interviene in tempo nelle crisi all’estero, le crisi arriveranno da noi». Di fatto l’Unione Europea oggi non ha nemmeno una forza permanente che possa intervenire nelle situazioni di crisi al di fuori dei propri confini, nonostante i Trattati lo prevedano espressamente per adempiere alle Missioni Petersberg, introdotte dal Trattato di Amsterdam del 1997 che ha previsto l’embrione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc) con l’istituzione della figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza. Si tratta di missioni umanitarie e di soccorso, antiterrorismo, di ispezione sul rispetto dei trattati internazionali sul disarmo, stabilizzazione post-conflitto, mantenimento della pace e missioni di gestione delle crisi, fino a quelle di peace-keeping, peace-building, peace-enforcement.

Cosa esiste oggi

Per adempiere ai Trattati si era disegnata, con gli accordi di Helsinki del 1999, una forza permanente di reazione rapida di almeno 60mila uomini (con altri 120mila per i ricambi) che potesse essere impegnata in zone di crisi fino a 4.000 km da Bruxelles. Doveva nascere entro il 2003, ma è rimasta lettera morta, e al suo posto sono invece nati nel 2007 i Battlegroups: sono 2 gruppi da 1500 uomini sempre operativi che si alternano a rotazione tra i Paesi membri ogni sei mesi, per un totale di 3.000 unità. Sono costituiti attorno a un battaglione di fanteria supportato da unità di trasporto, servizi e sostenimento in operazione. Dovrebbero essere pronti a partire entro 10 giorni dalla decisione politica, con un’autosufficienza operativa di almeno 30 giorni, ma ad oggi non sono mai stati schierati in alcuna operazione internazionale a causa della farraginosità dell’utilizzo, del numero troppo esiguo per le crisi internazionali e dalla mancanza di un budget europeo dedicato. I Paesi europei, però, partecipano a missioni all’estero. Oggi quelle attive sono in Bosnia e Kosovo, quelle africane di addestramento truppe locali (in Somalia, Mali, Repubblica Centrafricana, Niger), quelle di monitoraggio (Georgia, Iraq, Libia, Territori Palestinesi, al confine tra Moldova e Ucraina), di assistenza di polizia (Albania) e le due missioni di pattugliamento navale nel Mediterraneo e in Somalia. La partecipazione però è volontaria e non esiste una linea di comando che risponda direttamente alle istituzioni europee: ogni forza armata risponde allo Stato maggiore Difesa del proprio Paese, creando confusione.

I tentativi di Eurocorps ed Eurofor

Gli unici tentativi di costruire una forza comune indipendente dai singoli stati sono quelli di Eurocorps ed Eurofor. Eurocorps nasce nel 1992 e comprende reparti provenienti da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Spagna. Il Comando ha sede a Strasburgo e nel suo Stato Maggiore ci sono anche ufficiali provenienti da Grecia, Italia, Polonia e Turchia. Conta 1.300 uomini e ha partecipato a missioni all’estero in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Mali, ma da sette anni svolge solo compiti di sicurezza al Parlamento europeo a Strasburgo.

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare.

Eurofor, invece, era una forza multinazionale europea a intervento rapido composta dai reparti di Francia, Italia, Spagna e Portogallo. Nata nel 1995, con base a Firenze, aveva come compito proprio l’espletamento delle Missioni Petersberg e rispondeva direttamente al Comitato militare dell’Unione europea. Fu impiegata con successo in Albania, Macedonia, Ciad e Repubblica Centrafricana, ma venne chiusa il 2 luglio 2012 dopo il ritiro della Spagna, preoccupata dal vento indipendentista della Catalogna.

La futura forza armata europea

Secondo gli analisti il primo passo sarebbe quello di dare vita agli accordi di Helsinki con una forza di intervento rapido, distaccando permanentemente proquota le unità dalle forze armate dei singoli Paesi membri, con Francia, Italia, Germania e Spagna protagonisti. Questo dovrebbe essere il nucleo centrale da cui poi sviluppare una Forza Armata comune di difesa che, secondo uno studio commissionato dal Parlamento Europeo nel 2018, permetterebbe di rendere più efficienti le spese militari e di risparmiare 29,5 miliardi di dollari all’anno solo nei doppioni. Infatti, siccome ogni paese fa da sé, abbiamo sistema di difesa (antimissile, antiaereo) sei volte di più che negli Stati Uniti e molte sono inutili; 154 tipologie diverse di mezzi armati e 17 tipi di veicoli corazzati. Per gli aerei da combattimento ci sono quattro diversi progetti a livello europeo. Uno in corso dal 2019 tra Francia, Germania e Spagna; quello per gli F35 che comprende Italia, Paesi Bassi e Regno Unito; quello per lo sviluppo del caccia Tempest attivo dal 2019 tra Italia, Svezia e Regno Unito; infine quello svedese del jet Gripen, utilizzato anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia.

Inoltre ogni Paese tende a favorire l’industria militare nazionale spesso statale (Leonardo e Fincantieri in Italia, Thales in Francia, Navantia in Spagna), che continua a sviluppare iniziative separate e su scala più ridotta. Questo spiega perché il mercato della difesa europeo è così frammentato. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa (Eda), nel 2020 gli stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi di euro su progetti comuni.

Il nodo politico

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare.

La Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), introdotta dal Trattato di Maastricht per consentire all’Ue una posizione coordinata e più forte a seguito dei cambiamenti geopolitici seguiti alla fine della guerra fredda, e poi rinominata Politica Comune di Sicurezza e Difesa (Pcsd), è gestita dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Dal 2011 questa figura è anche al vertice del servizio diplomatico della UE, e della Agenzia Europea della Difesa (Eda). Ma i suoi poteri sono debolissimi. Principi, le decisioni vengono prese dal Consiglio dei Ministri e adottate solo all’unanimità. Nella pratica vuol dire non prendere posizioni in tema di politica estera, perché fra i 27 paesi membri, quasi mai sono tutti d’accordo.

13 aprile 2022 | 06:43

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