Gentile Redazione,
mai avrei pensato, a pochi anni dalla mia immissione in ruolo come docente di sostegno, dopo avere conseguito l’abilitazione su diritto ed economia, di ritrovarmi in un mondo scolastico così diverso da quello frequentato tanti anni fa come discente.
Il cambiamento è nella natura delle cose, non si discute, ma la natura delle cose non si può stravolgere. La scuola, in questi anni, in particolare a seguito della riforma Renzi, cosiddetta “Buona Scuola”, ha perduto la sua valenza educativa, trasformandosi sempre più in un’azienda, un luogo in cui prevale la tendenza agli eventi, ai progetti che portano tanti soldi, ai corsi di formazione, in gran parte inutili, tanta fuffa, poca sostanza.
L’aspetto umanistico ed educativo viene messo da parte come un vecchio rottame di nessun valore. Si parla tanto di competenze, di abilità, e la conoscenza viene fatta sprofondare a man bassa nel fondo del dimenticatoio.
Molti ragazzi non conoscono la differenza tra est ed ovest, tra Cuba e il Giappone, non riescono a sviluppare un tema né a produrre un discorso. Quando faccio notare questo ai miei colleghi, molti rispondono, rassegnati, che la modernità e la tecnologia conducono inesorabilmente verso questa strada. Insomma, l’accettazione della scuola fluida.
E vale anche per noi docenti, sempre meno preparati ma sempre più bravi ad usare la Lim o il Tablet.
Per insegnare ho dovuto superare due prove scritte e un orale, e, successivamente, per specializzarmi sul sostegno, ho dovuto superare una rigida selezione presso l’università italiana.
Non ho conseguito lauree presso università telematiche o abilitazioni estere, spesso, anzi quasi sempre, comprate. Eppure oggi sento alcuni colleghi che si rivolgono al sottoscritto come se parlassero ad un pezzo di antiquariato, sognatore ed idealista. I dirigenti scolastici, con la scusa del Pnrr, continuano ad imporci corsi di formazione, tra l’altro, al momento non obbligatori, e qualcuno di essi non si è risparmiato a dire: “cosa volete che se ne facciano i giovani di Dante!“.
“Middle management, cooperative learning, problem solving, competenze, cittadinanza attiva, open day” sono alcuni dei termini di cui si abusa pur di conquistare la platea, inglesismi che avrebbero un senso se avessero un contenuto valido. Il modello finlandese scolastico, che tanto viene richiamato, è valido perché è partorito da un modello di civiltà completamente diverso dal nostro.
In Finlandia si realizza veramente il cooperative learning, non è una parola per rendersi moderni, è un modo di agire.
Una mia amica olandese mi ha riferito che in Olanda la selezione degli studenti e dei docenti è tendenzialmente rigida, non esistono i promuovifici ad ogni costo, eppure parliamo di Paesi avanzati e moderni, dove i famosi “compiti di realtà” o “l’apprendimento significativo” vengono realizzati a fini educativi e non per fornire alibi agli studenti e agli insegnanti, per non operare in senso formativo.
Lo studio delle materie umanistiche mai come in questi tempi è stato vituperato, quando, al contrario, aiuta i giovani a formarsi e ad approfondire la conoscenza e il saper vivere, elementi pregiudiziali per il passaggio alle competenze da acquisire.
Formarsi vuol dire prima di tutto avere il senso del passato, del divenire delle cose, perché il momento che viviamo come esperienza scaturisce da quel che c’è stato prima. Le versioni di latino e greco che mi impegnavano al liceo mi sono servite, come metodo, per capire e tradurre l’inglese, e i contenuti storici di quelle opere mi hanno supportato nella coscienza del senso civico. Una scuola che dimentica il suo passato non può mai diventare moderna, una scuola che non cura i rapporti con le famiglie dei ragazzi non può mai entrare in empatia con essi.
È tutto un lavoro simbiotico che non deve abbattere i ruoli, che giustamente dovranno essere più elastici, che non deve cancellare l’autorevolezza dei docenti, rimuovere la differenza d’età e il sapere percorso negli anni.
Un adolescente rimane un adolescente e guai a farlo sentire adulto prima del suo tempo, si rischia di perdere il senso delle cose che si fanno. La scuola non può diventare il parcheggio o l’hotel che pensa di far contenti i propri utenti col motto: “il cliente ha sempre ragione“, in un reciproco approccio di edonismo soddisfacente delle parti in campo.
Secondo i principi della cosiddetta “buona scuola” le competenze assurgono a faro di tutto, a barba della conoscenza, tutto al contrario.
Immaginate un albero che nasca dalle foglie per arrivare alle radici, mai visto in natura, o costruire una casa senza fondamenta.
Ecco, la scuola di oggi è questa, sempre più azienda, sempre meno costruttiva di alunni critici e pensanti (e qui torna la formazione umanistica), sempre più creata per sfornare ragazzi acefali e poco preparati (ah, però sono bravi a chattare e trovare la soluzione giusta per ogni domanda).
I governi che si succedono continuano a modificare la normativa scolastica spacciandola come riforme importanti. Pensiamo ai docenti tutor, ma che senso ha la loro figura? C’era veramente bisogno di un coach che faccia da mediatore tra i docenti e tra questi e le famiglie degli alunni?
Un lavoro che hanno sempre svolto i docenti stessi. Vogliamo parlare della formazione? Solo un’escamotage per creare enti inutili e sperpero di soldi. I professionisti, tutti, hanno l’interesse naturale a migliorarsi e perfezionare la loro conoscenza.
È normale che chi vuole crescere dovrebbe aggiornarsi, ma deve poter rimanere una scelta. Qualcuno sa spiegarmi l’importanza e la necessità dell’Invalsi, del Rav, e di tante altre iniziative inutili? Coi soldi del Pnrr sarebbe meglio investire sugli edifici scolastici fatiscenti e sull’educazione dei ragazzi. Invece i nostri dirigenti (non sia mai chiamarli presidi), pressati dal Ministero e dalle Linee Guida non fanno altro che pensare ai numeri in forma aziendale, e dei ragazzi non frega niente a nessuno, della loro educazione, delle loro speranze, dei loro sogni.
E la cosa più grave è che noi docenti siamo complici, privandoci della libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione, perché ci stiamo abituando a questo metodo furbo e gattopardesco, cambiare tutto per non cambiare niente, se non in peggio.
Giuseppe Racco
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