Notizia del 22 febbraio scorso: un professore precario, Enrico Morabito, è stato picchiato sotto casa da alcuni scagnozzi, i quali prima di pestarlo a sangue gli hanno chiesto se fosse lui “il professore” della scuola “De Curtis” di Casavatore (comune di 18.000 abitanti in provincia di Napoli). La mattina precedente — riferisce il docente — aveva dovuto richiamare per il loro comportamento gli alunni della prima media cui era stato assegnato come supplente. Compreso il nesso con l’episodio, il professore ha sporto denuncia, convinto che l’ordine del pestaggio sia partito da alcuni genitori della classe: ai quali si è rivolto invitandoli a riflettere che i ragazzi sono vittime loro, in quanto educatori mancati.
Pochi giorni dopo arriva la replica dei genitori stessi: i quali in una lettera aperta, pur stigmatizzando la violenza, lamentano che i propri bimbi, «minacciati» e derisi dal professore, erano «sfociati in lacrime»; ed accusano il docente di aver «condannato i bambini e i genitori ritenendoli responsabili dell’aggressione denunciata contro ignoti», senza “possibilità di difesa e contraddittorio”, mediante un uso distorto e fazioso dei media.
Non spetta ovviamente a noi, ma all’autorità giudiziaria, stabilire dove sia la verità. Certo è che gli episodi di violenza contro i docenti delle scuole d’ogni ordine e grado non si contano più. Certo è anche che ogni insegnante è stato precario e sa bene quale sia l’atteggiamento dei ragazzi (e dei loro genitori) in molte scuole di tutta la Penisola, da nord a sud. Ed è pure certo che la violenza è aumentata nell’ultimo decennio, col procedere dell’impiegatizzazione e precarizzazione dei docenti, dell’erosione dei loro salari, della distruzione della loro considerazione sociale: saporosi frutti della politica scolastica degli ultimi 30 anni e di una vergognosa rappresentazione mediatica (pure trentennale) dei docenti stessi.
Così come è certo che al massimo un caso di violenza su tre viene reso noto, perché troppi insegnanti nemmeno denunciano le intimidazioni subite (per non parlare di umiliazioni e insolenze, spesso quotidiane). Spicca, infatti, la “schiena dritta” del prof. Morabito (che è anche regista), così come quella di pochi altri docenti che adiscono le vie legali per denunciare l’accaduto.
Una domanda è però d’obbligo: possibile sia necessario ricordare che, in caso di lesioni a un docente, scatta l’obbligatorietà dell’azione penale per aggressione a pubblico ufficiale?
Articolo 336 del codice penale: «Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa».
L’obbligo di denuncia, in questi casi, è in capo al Dirigente Scolastico: il quale, in quanto “datore di lavoro”, ha l’obbligo di tutelare la salute (fisica e psichica) dei lavoratori (e quindi anche dei docenti). Non deve dunque, in caso di violenza contro un insegnante, attendere la querela di parte, ma deve esser lui a sporgere denuncia.
Quello della tutela del lavoratore non è solo un principio di rango costituzionale (articolo 32 della Costituzione), ma è anche previsto dal codice civile, il quale, all’articolo 2087, impone al datore di lavoro di adottare le misure «necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Come si spiega, allora, la sostanziale impunità di cui, da anni, continua a godere chi offende, insulta, aggredisce, pesta a sangue i docenti? Per quale motivo alcuni dirigenti, anziché prender chiara e netta posizione a favore dei docenti offesi, insultati, aggrediti, pestati, tendono — nella migliore delle ipotesi — a rilasciare dichiarazioni “general generiche”, mantenendosi equidistanti tra vittima e carnefici, quasi che la loro funzione fosse al massimo quella di paciere? Il diritto è forse un’opinione? O piuttosto il motivo di tale comportamento è forse il desiderio di non contrariare i genitori-utenti-clienti dell’istituzione Scuola trasformata in scuola-azienda in competizione con le altre scuole-azienda del territorio?
È quanto accaduto, ad esempio, in una scuola di Bari, dove nel 2017 una madre picchiò e minacciò di morte una docente: il dirigente, successivamente, dichiarò: «Abbiamo risolto tutto, alla presenza dei carabinieri, e nel mio ufficio le due donne si sono parlate e hanno deciso di comune accordo di risolvere le future controversie cercando il dialogo ed evitando lo scontro». “Volemose bbene”, italianamente, con la vittima senza giustizia e il carnefice senza sanzione.
Eppure molti Dirigenti non esitano certo ad esibire i pieni poteri che la legislazione negli ultimi dieci anni ha loro attribuito nei confronti dei docenti. Dov’è finito il rispetto che la società tutta tributava un tempo ad un’istituzione fondamentale come la Scuola? Forse persino i dirigenti sono consapevoli di aver anche loro perso la propria autorevolezza, essendo a capo non più di un’istituzione (“organo costituzionale” la definì un certo Piero Calamandrei), ma di un’azienda sul mercato?
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