di Lorenzo Cremonesi
Lungo il fronte dell’unica regione a ovest del Dnepr ancora occupata, dove i civili sono convinti della vittoria ma i militari restano cauti: «Ci vorrà tempo»
DAL NOSTRO INVIATO
LOTSKINO (FRONTE DI KHERSON) — «Sono certa che l’amore della mia vita, il mio Serhi che avevo sposato quarant’anni fa, non è morto invano. I russi l’hanno torturato e ucciso qui nel nostro villaggio, hanno distrutto la mia esistenza. Ma il suo esempio di sacrificio contribuisce adesso ad alimentare la volontà di combattere dei nostri soldati e la guerriglia partigiana. Vinceremo: ne sono certa ora più che mai e Putin con questo falso referendum e l’annessione barzelletta delle nostre terre è destinato alla sconfitta».
Partiamo da lei, dalla 60enne maestra e bibliotecaria Tatiana Bojko, per raccontare questi ultimi tre giorni di incontri sulla linea del fuoco nel settore meridionale di Kherson, l’unica regione a ovest del grande fiume Dnepr ancora occupata e che da ieri Putin ha unilateralmente riunito alla «madre Russia» assieme a quelle di Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk.
Partiamo da Tatiana anche perché col suo coraggio e lo sguardo diritto incarna bene il nuovo spirito ottimista di resistenza che prevale tra gli ucraini dopo che nelle ultime tre settimane i loro soldati sono riusciti in un’impresa che tanti, anche tra gli alleati occidentali, ritenevano quasi impossibile, almeno prima dell’inverno: hanno sfondato le linee russe a sud di Kharkiv, liberato la città strategica di Izyum e adesso stanno avanzando su quella di Lyman verso il cuore del Donbass. Pare che a Lyman le unità russe siano ormai completamente circondate. «Se vorranno ritirarsi, a Mosca dovranno chiedere il nostro permesso», proclamano i comandi di Kiev. Riusciranno gli ucraini a prendere presto altri centri rilevanti come Severodonetsk e Lysyshansk, che erano stati l’apice dei trionfi russi di giugno-luglio tra Lugansk e Donetsk? Difficile dire. Ma un dato è certo: all’annessione formale sbandierata da Mosca non corrisponde la realtà fattuale sul terreno e la bilancia dello scontro militare continua a pendere nettamente a favore di Kiev.
Armi e munizioni
«Le truppe russe accompagnate dai collaborazionisti di Donetsk arrivarono al nostro villaggio di Lotskino la prima settimana di marzo. Subito si dettero da fare per catturare gli oppositori, specie i partigiani e i nostri combattenti sin dalla guerra del 2014. Serhi era ben noto a tutti: con alcuni amici aveva preso armi e munizioni dai cingolati russi per costruire gli arsenali della resistenza. La notte del 16 marzo lo vennero a cercare a casa, il giorno dopo era già un fagotto insanguinato, lo vidi per pochi secondi sbattuto sul pavimento di una cella. Il 18 marzo i russi si ritirarono verso Kherson e io ritrovai il suo corpo martoriato in una buca poco profonda vicino all’edificio dove era stato il comando russo. Da allora non cerco vendetta, ma soltanto giustizia e continuo a lottare per la sconfitta del macellaio Putin», aggiunge Tatiana.
Sono parole che raccolgono le simpatie di tanti tra i circa 1.500 abitanti del villaggio (prima dell’invasione erano il doppio). Nell’unica merceria della via principale tre donne dicono di parlare regolarmente per telefono con parenti e amici nelle zone occupate. «Mio cugino Leonid ha un negozio di giocattoli a Kherson. Due giorni fa mi ha spiegato che adesso i russi hanno paura, si muovono sempre in gruppi con i mitra pronti a sparare. Prima dicevano che erano qui per restare, cercavano di farsi ben volere. Ma adesso si comportano da ladri, minacciano, come se dovessero scappare da un momento all’altro. A Leonid hanno rubato tutti i giocattoli, se li sono portati in Russia durante le licenze», racconta una di loro, Livia, con parole e toni che soltanto due mesi fa era molto più raro sentire.
La cautela
Più cauti sono però i militari. «Qui la sfida resta difficile, molto più complessa che a Kharkiv. È dai primi di giugno che i russi si stanno trincerando a Kherson, hanno interrato i carri armati, costruito bunker e campi minati», dice il 26enne Vladislav Odoromko, sergente maggiore della 59esima brigata di artiglieria schierata poco lontano, presso il villaggio di Chechenkova. Lui non crede si possano condurre attacchi leggeri e veloci, qui l’elemento sorpresa è morto e sepolto da giugno, quando lo stesso presidente Zelensky annunciò ai quattro venti l’intenzione di lanciare la controffensiva destinata a marciare su Mariupol e in Crimea. Oggi sappiamo che è stata una strategia ben ragionata. I russi sguarnirono Izyum per difendere Kherson e gli ucraini ne hanno approfittato. Ora però Kherson resta un osso duro.
L’inverno
Le unità della 59esima stanno attrezzando le trincee per l’inverno, i dormitori situati in robusti container interrati vengono dotati di stufe a legna e cherosene. Un ufficiale al comando spiega come si vorrebbe procedere: «Il punto debole dei russi sono le vie di rifornimento. Noi abbiamo distrutto i loro tre ponti sul Dnepr e colpiamo metodicamente i pontoni e le chiatte. I lanciamissili Himars, i droni e le altre armi ad alta precisione fornite dagli americani fanno la differenza. Se non si ritirano a est del Dnepr, resteranno tagliati fuori. Ma ci vorrà tempo, la caduta di Kherson non sarà per domani».
30 settembre 2022 (modifica il 30 settembre 2022 | 22:57)
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, 2022-09-30 20:55:00, Lungo il fronte dell’unica regione a ovest del Dnepr ancora occupata, dove i civili sono convinti della vittoria ma i militari restano cauti: «Ci vorrà tempo», Lorenzo Cremonesi