Era il 26 giugno 1967 quando Don Lorenzo Milani moriva, a Firenze, a casa della mamma, circondato solo dall’affetto dei suoi studenti, che come dirà lui stesso nel suo testamento ha amato più di Dio, “ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze”.
Poco prima di morire, ma quando era già molto malato, vide la pubblicazione del lavoro realizzato insieme a tutti gli alunni della scuola di Barbiana, il famoso testo dal titolo “Lettera a una professoressa”.
Un testo che ha reso la figura di Don Milani degna di attenzione nel tempo, tant’è che sia il Ministero che Papa Francesco hanno spesso reso omaggio ad un maestro e sacerdote, che ha amato la scuola fino all’ultimo e che ha provato a migliorare con l’esempio di una scuola forse irripetibile, ma che accoglieva tutti e non lasciava indietro nessuno.
Con un gruppo di cinquanta studenti ed insieme al Prof Italo Fiorin, direttore della scuola di Alta Formazione “Educare all’Incontro e alla Solidarietà (EIS)” della Lumsa di Roma, ci siamo recati a Barbiana, per incontrare il messaggio, ancora rivoluzionario e provocatorio, del sacerdote Fiorentino.
Obiettivo della nostra faticosa salita a Barbiana era capire l’attualità di un messaggio scomodo, incapace di scendere a compromessi, ma proprio per questo ancora attuale e incredibilmente urgente. Il messaggio dell’attenzione agli ultimi, ai più poveri, a chi la scuola esclude, come un “ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
C’è qualcosa che spinge maestre e maestri di tutta Italia a salire per la strada polverosa di Barbiana, nonostante i molti anni passati. Probabilmente è la ricerca di un messaggio coerente e affascinante, quello di una didattica che parte dalla realtà, dall’incontro con i problemi veri e sentiti degli alunni. È la voglia di approfondire un messaggio che parla di inclusione, di competenze, di didattica non frontale, di superamento del concetto di libro di testa.
Un messaggio attuale, come detto, semplice e lineare, perché nella scuola di Barbiana ogni parola veniva scelta con cura, perché è proprio il numero di parole che fa la differenza tra il figlio del montanaro e quello del dottore. E se l’obiettivo è non lasciare indietro nessuno ecco che le parole devono essere chiare, semplici, dirette.
Gli studenti della Lumsa saliti a Barbiana si sono confrontati con la forza del messaggio di quelle quattro mura dimenticate su una collina del Mugello, hanno riflettuto su che tipo di scuola vogliono creare, sulle loro aspettative di educatori, sul bisogno di non essere conformi ad una modalità, spesso ripetitiva, di fare scuola.
“I Care” è il messaggio che campeggia su una parete della povera scuola di Barbiana. Come dice lo stesso Don Milani, è il motto della migliore gioventù americana, significa “Mi sta a cuore” ed è l’esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”.
Ecco, è forse questo il bisogno più grande. Il bisogno di costruire una scuola in grado di “avere a cuore” tutti gli alunni, a prescindere dalle loro capacità, e di portarli tutti, nessuno escluso, verso il successo formativo.
I Care.
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