di Giusi Fasano
Distrutte sette case su dieci. Oggi è una città-formicaio, e c’è anche chi organizza tour turistici
DALLA NOSTRA INVIATA
IRPIN – Abbiamo imparato il suo nome nei giorni tragici di marzo. La folla dei civili in fuga sotto il ponte crollato: Irpin. La donna uccisa con i figli e il cane, i cadaveri rimasti per strada accanto al trolley: Irpin. La casa della cultura sventrata: Irpin. Il centro commerciale raso al suolo: Irpin. E poi mozziconi di palazzi, chilometri di strade senza nemmeno un vetro – non uno – ancora intatto. Era Irpin, sempre Irpin.
In questi cinque mesi e mezzo di guerra è sempre stata lei la città più visitata dai leader e dalle star di tutto il mondo, quella delle conferenze stampe in strada, davanti agli scheletri di edifici che non esistono più. E quella delle promesse: vi aiuteremo, faremo, vi sosterremo…
«Poi, a telecamere spente, tutti precisano che sì, certo, faranno. Ma a guerra finita. E intanto noi che facciamo?» si chiede Artem Hurin, uno dei deputati (come li chiamano qui) del consiglio comunale. «L’inverno è dietro l’angolo», dice. «Le case non hanno i tetti. Le finestre sono senza vetri. Il 70% dei palazzi della città è danneggiato e almeno nel 20% dei casi dovremo demolire tutto. E vorrei precisare: parlo soltanto dei palazzi. In più ci sono le case singole. Come vivrà tutta questa gente quando arriverà il gelo?».
Per quanto possa sembrare lontano da queste giornate a 30 gradi, il freddo che verrà è la preoccupazione numero uno. Di tutti. Per il gas, che si teme non basterà. E per i danni delle bombe, evidenti. È per questo che Irpin oggi è una città-formicaio. Nel senso che come formichine operose, i suoi abitanti si muovono freneticamente per sistemare porte e finestre, per ripulire scale e androni dalle macerie, per riparare tetti aperti come scatolette, muri bucati da colpi di mortai, termosifoni, tubi, portoni…
Soldi non ce ne sono, le grandi imprese di questo territorio sono chiuse o distrutte e al momento non pagano tasse da usare per i cittadini, i soldi pubblici servono per i soldati al fronte perciò gli aiuti, se arrivano, arrivano con il contagocce. E allora ci si affida al mutuo soccorso fra vicini di casa o alle associazioni di volontariato dai nomi che raccontano già tutto, tipo «Battaglione di volontari per la costruzione» oppure «Coraggio di ristrutturare».
La sola opera che viaggia spedita verso la rinascita è il nuovo ponte che unirà Irpin con l’estremo lembo ovest di Kiev. Il Romanivsky bridge – quello storico – è spezzato. Lungo i suoi pezzi d’asfalto, calpestati da migliaia di profughi in fuga in cerca di salvezza fra neve e ghiaccio, adesso c’è una fila di croci di legno, ci sono scarponi e pupazzetti appesi, appartenuti a chissà chi, e c’è ancora il furgone bianco cappottato e incastrato fra le macerie e il fiume. Di tutto questo nulla sarà toccato: il presidente Volodymyr Zelensky ha annunciato che il Romanivsky bridge diventerà un memoriale. E quindi il nuovo ponte – finanziato da fondi presidenziali e costruito da società turche – sorgerà accanto perché tutti, passando, possano vedere e ricordare quei giorni orribili di marzo.
Olena, 51 anni, non ha certo bisogno di passare dal ponte per ricordare. «È tutto qui, nella mia mente. Come se stesse capitando adesso», dice. Suo marito è nell’esercito, sta combattendo da qualche parte. Lei se ne sta seduta ai piedi del palazzone di fronte alla Casa della cultura bombardata. Mancano pezzi di muro, dei vetri nessuna traccia, il tetto è da sistemare, eppure una quarantina di famiglie sono tornate a viverci. Va peggio al condominio sul retro, già classificato come «da demolire». Matvi, 7 anni, prova a stare in piedi sui pattini a rotelle davanti all’ingresso annerito dal fumo. Gioca con l’amico Gordji e dice che lo sa, sì, che demoliranno tutto, «ma mamma dice che noi stiamo qui lo stesso».
Quanti soldi serviranno per ricostruire Irpin? «Dipende da come vogliamo rifarla» risponde Artem Hurin. «Alcune stime dicono circa un miliardo di dollari. Abbiamo organizzato un summit online con 120 architetti di tutto il mondo (c’era anche Stefano Boeri, ndr) per progettare la futura architettura urbana. Quando sarà tempo sceglieremo i progetti e li metteremmo ai voti sul nostro sito».
Ci sono imprenditori del turismo che propongono un «pacchetto Bucha-Irpin». «Inaudito», se la prende il consigliere Hurin. «Un’offesa alla memoria dei nostri morti. Abbiamo perso 330 civili, più 40 uomini della guardia territoriale e 30 militari. E poi ci sono i molte persone scomparse, altre rapite. Che facciamo? Portiamo la gente fra le rovine in pantaloncini e infradito? Non è tempo di turismo. Dobbiamo affrontare l’inverno. E il nemico».
9 agosto 2022 (modifica il 9 agosto 2022 | 23:34)
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, 2022-08-09 22:46:00, Distrutte sette case su dieci. Oggi è una città-formicaio, e c’è anche chi organizza tour turistici, Giusi Fasano