di Roberto Gressi
Il discorso del presidente del Consiglio al Senato. La replica, dura, a chi parla di pieni poteri: voi decidete
«Qui c’è qualcosa che non funziona». La voce grave di Mario Draghi attraversa l’emiciclo di Palazzo Madama, un attimo appena dopo l’inizio del suo intervento, quello che avrebbe portato la politica a dire che ne aveva abbastanza di lui, con le sembianze di Giuseppe Conte, che nei corridoi qualcuno con irriverenza ieri definiva «l’utile idiota». Con il timbro di Matteo Salvini, che dopo il Papeete ha mandato avanti il suo capogruppo. Con un irriconoscibile Silvio Berlusconi, che ha dovuto registrare l’addio di Maristella Gelmini, con lui dalla prima ora. Una che raccontava, parlando della nascita di Forza Italia: «Si, abbiamo vinto, va bene, ma tu non immagini nemmeno quanto ci siamo divertiti».
I cronisti delle dirette si affrettano a spiegare: il premier sta sollevando un problema tecnico, il microfono non funziona bene. Si, certo che è così, ma il brusio dell’Aula fa capire che i senatori hanno capito. Hanno capito che Mario Draghi non farà sconti. Non dirà ad Alfonso Ciampolillo, detto Lello, che sta pensando di diventare vegano, come fece Conte per avere il suo voto, quando il suo secondo governo stava per affondare.
Né dirà a Gianluigi Paragone che, tutto sommato, Italexit è cosa un po’ ardita, ma ragionarci sopra bisogna, facendo dell’Europa un taxi sul quale salire o scendere quando fa comodo. Né, tantomeno, in cerca di un sostegno tradirà un Paese ferito, che parla attraverso le sue città devastate, i suoi cittadini trucidati, le sue ragazze violentate, i genitori che piangono i figli, soldati o bambini.
Ora si aspetta. Il premier dimissionario non è ancora andato al Quirinale. Se si seguissero i regolamenti, per altro, bisognerebbe comprendere meglio come uscire da un voto dove il plotone d’esecuzione ha marcato visita. Ma nella sostanza la strada è segnata e, salvo sorprese, avremo le elezioni anticipate, con Mario Draghi che si presenterà oggi dimissionario davanti alla Camera e si appresterà a gestire l’ordinaria amministrazione fino al voto. Che sarebbe un po’ come avere Elon Musk a tenere le redini di una Coop di quartiere, in attesa che una riunione di condominio decida con chi sostituirlo.
Del resto, nel suo intervento, il presidente del Consiglio lo aveva chiesto e richiesto: siete pronti? Siete pronti a fare insieme a me quello che gli italiani ci chiedono? Macché, no che non sono pronti, anzi, con ci pensano nemmeno. E lo si è capito dalle manovre, ma anche dal tono con cui Mario Draghi ha condotto la sua replica.«Siete voi che decidete, niente richiesta di pieni poteri, va bene?». E ancora: «Il reddito di cittadinanza è una buona cosa, ma se è fatto male e non funziona diventa una cattiva cosa». E poi, quasi con sofferenza, sul superbonus: «Se il meccanismo di cessione del credito mette in difficoltà migliaia di aziende, bisognerà metterci mano, che dite?».
Inutile negarlo, lo sguardo e il tono del premier, mentre dice queste cose, sono annoiati. Snobismo? Può essere. Ma per chi lo ha visto in tv è evidente come la noia sia frutto del rifiuto di partecipare al gioco dei rilanci, delle furbizie, della demagogia. Roba da campagna elettorale abbondantemente già iniziata. La replica ha avuto un segno inequivocabile: io ho capito e voi avete capito, risparmiamoci almeno la mortificazione dell’ipocrisia.
Il finale di partita era già scritto, senza scomodare Beckett. E quindi pare ozioso interrogarsi sul fatto se il premier abbia sbagliato i toni, magari volutamente. Il discorso in Aula è stato costruito con una semplicità voluta: soggetto, predicato, complemento. O se si vuole seguendo il motto evangelico che recita: il vostro parlare sia sì sì, no no, perché il di più viene dal maligno. Certo non c’è stata ingenuità, da parte di uno come Mario Draghi, nell’uso delle frasi, ma un’ultima scommessa: il tentativo di convincere i partiti a coprire l’ultimo miglio, tutti insieme, prima di sfidarsi nella campagna elettorale.
Il tentativo è fallito e il sospetto è che non sia successo per il rifiuto del premier di immiserire il programma comune infarcendolo di pseudo concessioni. A Palazzo Madama e a Montecitorio sono tutti abbastanza grandi e svezzati da sapere fino a dove ci si può spingere. La furia è esplosa in realtà quando hanno sentito citare gli italiani. Gli oltre duemila sindaci. Medici e infermieri, gli angeli della pandemia. La scuola, l’università, la ricerca. Il mondo della produzione. L’elenco dell’Italia che chiedeva di affrontare uniti gli ultimi scogli è stato il vero scivolone del premier dimissionario, perché il richiamo a stare insieme questo Paese, o almeno chi lo rappresenta, non lo ha mai digerito. E il timore che tanto successo nel rendere più moderata l’Italia potesse avere un futuro, ha fatto il resto.
21 luglio 2022 (modifica il 21 luglio 2022 | 07:29)
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, 2022-07-21 05:32:00, Il discorso del presidente del Consiglio al Senato. La replica, dura, a chi parla di pieni poteri: voi decidete, Roberto Gressi