di Francesco VerderamiIl premier e la scelta di dire in pubblico ciò che da tempo diceva in privato. E quei dubbi sui rapporti con Russia e Cina consolidati dai governi di Conte Si sa già chi non voterà. Da atlantista ed europeista, Draghi ha bacchettato i populisti. Sul conflitto ucraino e sulle relazioni dell’Italia con i partner dell’Unione, il premier ha detto in pubblico ciò che da tempo sosteneva in privato, additando Salvini per i suoi rapporti con Mosca, accusando Conte per le sue ambiguità sull’appoggio a Kiev, e avvisando Meloni che a Bruxelles bisogna saper scegliere gli interlocutori nell’interesse del Paese. È la guerra che ha indotto Draghi a uscire allo scoperto, prima di uscire da Palazzo Chigi. Quando al Copasir aveva sollecitato i partiti ad avere «rapporti trasparenti» con alcuni Stati «per non suscitare speculazioni», è perché sapeva del legame di Salvini con la Russia. Non c’entrano il dossier americano e le voci (smentite) su finanziamenti occulti: si riferiva all’intesa politica, rafforzata dalle «ripetute cene con l’ambasciatore Razov» dopo le quali il leader leghista tornava sempre alla carica sulle sanzioni contro Putin. E quella frase sulla forza della democrazia italiana, che «non si fa abbattere da nemici esterni o dai loro pupazzi prezzolati», ha evocato anche alcuni ragionamenti del premier sul sistema di potere che si consolidò all’ombra dei governi Conte I e soprattutto Conte II, su certe liaisons dangereuses con la Russia e con la Cina, prima e durante il Covid. Ci fosse stata la commissione d’inchiesta sulla pandemia — come propose Renzi — si sarebbe saputo di più sugli affari e gli intermediari italiani. Ma il fatto politico più emblematico e dirompente avvenne in Parlamento, quando il presidente del Consiglio giallorosso teorizzò «l’equivicinanza» dell’Italia con Washington e Pechino: parole che indussero il ministro della Difesa Guerini a chiedere una rettifica in sede di replica. Insomma, è contro questo meccanismo del «Francia o Spagna» che Draghi si è scagliato, ricordando che la «coerenza» nei rapporti internazionali è fondamentale «per non indebolire il Paese». E così come aveva iniziato il suo mandato l’ha finito, ribadendo la linea atlantista ed europeista che si è evidenziata nel corso della «guerra di liberazione» ucraina. Proprio il conflitto ha prolungato la sua permanenza a Palazzo Chigi, se è vero che — come ha confermato Giorgetti di recente — «dopo la corsa per il Quirinale la maggioranza di governo non c’era più e ogni percorso parlamentare era diventato una sorta di Via Crucis». Allora Draghi aveva visto i partiti tornare a ballare nella villa del principe Salina, dove ovviamente non era ospite gradito. D’altronde i partiti non l’hanno mai amato. È stato un sentimento reciproco, sebbene il premier abbia tenuto con tutti un rapporto diretto, seguendo i dettami del suo mandato. Ma non poteva non sapere. Infatti sapeva che, per esempio, il Pd aveva osteggiato il suo arrivo alla guida del Paese e fece finta di sorprendersi il giorno in cui gli raccontarono quanto venne detto al Nazareno all’atto del suo giuramento: «Questo governo fa paura». Tutti (o quasi) gli fecero poi pagare il conto sulla presidenza della Repubblica, sfruttando anche alcuni suoi errori. Da allora «i partiti se ne inventavano una al giorno». E in Consiglio dei ministri più volte ebbe a ripetere: «Non ho capito, voti sì o no a questo provvedimento? Perché se voti sì, impegni anche il gruppo parlamentare che rappresenti. Non è che poi cambiate posizione». «Non mantenere la parola data non è il metodo di questo governo», ha detto in conferenza stampa. Ce l’aveva con i leghisti per il provvedimento sui balneari, e il ministro Garavaglia ne aveva fatto le spese poco prima: «Sappi che mi è molto dispiaciuto». Ieri ha svuotato le sue scarpe. Consapevole di essere oggetto di «invidie e gelosie» anche da parte del mondo cattedratico che l’aveva preceduto nella gestione della cosa pubblica, ha trovato il modo di ribattere (senza citarlo) a Tremonti che lo aveva attaccato su una questione tecnica. Avrebbe replicato anche ad altri negli ultimi tempi, se non fosse che — giurava — «non li leggo ormai da anni». Prima di accomiatarsi ha provveduto a riprendersi il suo brand — sfruttato in campagna elettorale — avvertendo che non farà un secondo giro. Il 25 settembre andrà cronometrata la sua permanenza in cabina: se durerà poco vorrà dire che non avrà usato la matita. Il Corriere ha una newsletter dedicata alle elezioni: si intitola Diario Politico, è gratuita, e ci si iscrive qui Il Corriere ha una newsletter dedicata alle elezioni: si intitola Diario Politico, è gratuita, e ci si iscrive qui 17 settembre 2022 (modifica il 17 settembre 2022 | 10:17) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-17 08:18:00, Il premier e la scelta di dire in pubblico ciò che da tempo diceva in privato. E quei dubbi sui rapporti con Russia e Cina consolidati dai governi di Conte, Francesco Verderami