di Dall’inviata Marta Serafini
L’iniziativa nello studio del fidanzato fotografo a Zaporizhizha. «Facciamo qualcosa di concreto per aiutare militari e civili». I volontari distribuiscono indumenti e coperte per le notti
« Ho 26 anni, la mia Maidan è iniziata che ne avevo 18». Paulina ha gli occhi chiari e i capelli sottili. Dentro il laboratorio fotografico del suo fidanzato, a Zaporizhizha, racconta la «sua guerra». Non ci sono armi. Non ci sono soldati. Solo la voglia di aiutare chi ora è in difficoltà, civili o militari che siano. «La mia famiglia è originaria di Yalta», racconta. Dopo un’infanzia trascorsa lì, i suoi genitori decidono di trasferirsi. «Una parte dei parenti di mio padre erano di Zaporizhizha. Così, poco prima dell’annessione della Crimea alla Russia i miei genitori hanno deciso di lasciare. Sapevano che le cose sarebbero peggiorate e che ci sarebbe stato meno lavoro».
Paulina arriva dall’altra parte del Dnipro. All’inizio – racconta ancora – le mancano i suoi amici di infanzia, la scuola, i luoghi dove è cresciuta. «Ancora adesso chiudo gli occhi e sento il profumo del mare, risento la sabbia sotto i piedi. Ma per me è un mondo che non esiste più». Passano gli anni e Paulina frequenta nuove scuole, si fa nuovi amici. E in quegli stessi anni scoppia la rivoluzione. La «sua» Maidan. Difficile non farsi coinvolgere quando si ha 18 anni. Così, come tanti giovani ucraini, inizia a fare politica. «Sono diventa un’attivista di fatto». Ma per questa nuova generazione, la generazione arancione come la chiamano da queste parti, fare politica significa una cosa sola: fare.
Il rinascimento del porto
Dopo i primi anni trascorsi a studiare e leggere, Paulina è entrata nei corpi di volontari. «Abbiamo lavorato tanto tra Zaporizhizha e Mariupol, soprattutto dopo il 2014 (quando la città ritorna sotto controllo ucraino). Aiutavamo per lo più gli sfollati». Poi quando la città viene ripresa dagli ucraini, Paulina contribuisce al rinascimento del porto. «Ho un ricordo meraviglioso di quel periodo, abbiamo fatto rinascere Mariupol. Era un sogno».
Racconta di una città dove i giovani nazionalisti hanno organizzato manifestazioni, concerti, ritrovi. Per un po’ le cose sono andate bene e una parte di Paulina si è dimenticata dell’impegno. «Ho conosciuto il mio attuale fidanzato. Lui fa il fotografo e io sono appassionata di trekking, così abbiamo iniziato a viaggiare. È stato bellissimo: siamo andati sui Carpazi, in Islanda a fare il cammino di Santiago. Lui fotografa e io camminavo, non potevamo chiedere di più». Fino a gennaio, quando le vite di Paulina e del suo compagno sono cambiate, forse per sempre.
«Pochi giorni prima che scoppiasse la guerra, stavo preparando lo zaino per l’Irlanda. Avevo pianificato da mesi di andare a fare un viaggio lì. Avevo anche già ottenuto il visto. Sarei dovuta partire i primi di marzo. Ma poi è arrivata la notizia. E hanno iniziato a piovere i missili». Per un momento Paulina si ferma. Tira il fiato. Dopo le prime due settimane di guerra, terribili, passate chiusi nei rifugi, lei e il suo ragazzo decidono di fare qualcosa. «La situazione qui a Zaporizhizha era ancora molto complicata ma non certo come a Mariupol. Così abbiamo deciso di fare qualcosa per quella città così bella e cui siamo entrambi così legati». In pochi giorni Paulina si attiva e inizia a chiedere in giro. «Cosa posso fare di buono per gli altri?». A darle una mano a trovare i contatti una sua amica Lysia, anche lei attivista.
Il laboratorio
Passano pochi giorni e finalmente il progetto si concretizza. Paulina decide di mettere in piedi una produzione di sacchi a pelo da inviare ai militari al fronte e da spedire ai centri smistamento sfollati sparsi in tutta la regione. «Fin qui ne abbiamo prodotti mille, sono orgogliosissima del lavoro che abbiamo fatto. Molti all’inizio non capivano e ci contestavano, “A cosa servono? Non ne abbiamo bisogno”. Poi, dopo che in tanti, soldati compresi, hanno iniziato a trascorrere notti intere all’aperto, finalmente hanno capito l’importanza di aver un buon sacco a pelo».
Risultato, ora nello studio fotografico di Paulina campeggia una pila di sacchi a pelo. Sul retro, dove prima c’erano gli scatoloni di materiale fotografico, quei metri quadrati sono ora tutti occupati dai rotoloni di stoffa termica. Al posto delle macchine fotografiche, una pila di zip. E non solo. Negli ultimi giorni Paulina ha iniziato a produrre anche pile e indumenti termici per tenere al caldo chi è costretto a passare tante ore all’aria aperta.
Le prospettive
Per la produzione Paulina ha fatto anche un piano economico che le permette di non andare in perdita. «Ho chiesto aiuto al Comune per le spese di elettricità e per le spedizioni. E ho messo in piedi tre team che si occupano di cucire i materiali. Tutti volontari che lavorano come me, a titolo gratuito». Ed è così che, in qualche modo, Paulina è riuscita a far tornare in vita lo spirito della sua Maidan. «Forse mi ero impigrita negli ultimi anni. Ma ora la guerra mi fatto trovare una nuova motivazione e sono molto felice di aver messo in piedi questa produzione». Per guardare al futuro non c’è molto tempo ma Paulina lo sa già. «Ironia della sorte: prima di febbraio per andare in Europa mi serviva un visto ora invece no, potrei partire quando voglio. Ma io ho deciso di restare e di andare avanti con questa attività. E chissà che questo piccolo gruppo un domani – quando avremo vinto la guerra – non diventi qualcosa di più».
4 giugno 2022 (modifica il 4 giugno 2022 | 02:50)
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