di Massimo Franco L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto oggi nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Qualche giorno fa, mentre era già in ospedale, lo era andato a trovare un amico che lavora alla Rai. E ne era uscito quasi confortato. «Ciriaco ha momenti di confusione per via delle medicine. Ma quando mi ha visto ha detto: “Quanto sei brutto! Ma prima eri peggio…”. Insomma, era lui». Già, quelle parole sarcastiche, che in realtà nascondevano una sorta di affettuosità tagliente, erano lo specchio di questo democristiano arcigno come la sua Irpinia . E così appassionato della politica da averla abbracciata e tenuta stretta per decenni: dal cursus honorum dentro la Dc, a qualche ministero «di spesa», fino a farne nel 1982 al 1989 il contrastato segretario del rinnovamento, compresa una breve parentesi a Palazzo Chigi nel 1988. Ma quel doppio incarico, di leader di partito e di governo, aveva segnato anche l’inizio del suo declino, perché in un partito-femmina come la Democrazia cristiana l’idea che chiunque potesse assumere troppo potere faceva rabbrividire. E soprattutto provocava la nascita di anticorpi spietati. E gli anticorpi, allora, avevano le dita lunghe, le unghie curate e la voce narcotica di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani, che nel 1989 normalizzarono il partito dopo gli anni demitiani. Non che De Mita fosse un oratore brillante. Le sue chilometriche relazioni congressuali ricordavano un po’ quelle di Aldo Moro, suo mito politico e referente ideale e strategico. E spesso le sue interviste erano una croce e una delizia per lo sforzo necessario per renderle meno «ragionate». Eppure è stato un politico di razza: talmente «totus politicus» da avere scelto negli ultimi anni di fare il sindaco di Nusco, il paesino irpino dove era nato e abitava. La carriera politicaÈ stato l’ultimo leader scudocrociato a tentare l’estrema operazione di salvataggio di un partito-Stato schiacciato da quarant’anni al potere e da un’Italia e un mondo che cambiavano. Un esperimento ardito e controverso: il «rinnovamento» della Dc dopo il tragico 1978 e l’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse. Fu sua nel 1982 l’idea di inserire degli «esterni» come consiglieri chiamati a rianimare una forza sfiancata dalle logiche di potere. Si chiamavano Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. Romano Prodi, futuro presidente dell’Iri, poi premier, poi presidente della Commissione europea. Fabiano Fabiani, manager e prima direttore del telegiornale della rai. E un costituzionalista mite come Roberto Ruffilli: un galantuomo assassinato alla fine degli Anni Ottanta dal terrorismo rosso. Dovevano essere le avanguardie intellettuali e gli emblemi di un’operazione che, nell’ottica di De Mita, recuperava il contatto con il «retroterra naturale» della Dc: il mondo cattolico. Alcuni provenivano dall’Università cattolica di Milano, dove da studenti squattrinati del Mezzogiorno si erano affacciati su una realtà meno provinciale e creato le basi di un ruolo importante nella politica, nell’economia, nel mondo bancario. Amicizie destinate a durare tutta la vita con personaggi come Gerardo Bianco, l’economista Pellegrino Capaldo, il direttore della Rai Biagio Agnes. «L’operazione demitiana» De Mita si trasferì con alcuni di loro in un piccolo appartamento i via Confalonieri 5, a Roma, quartiere Prati. E il suo compagno di stanza, il giornalista Pier Antonio Graziani, ricordava sempre che per scherzo, ogni mattina un gruppetto andava nella sua stanza. E, dopo avergli regalato un galero, il cappello di panno rosso dei cardinali, lo invocava scherzosamente: «Cirì, dacci la benedizione!». E lui, assonnato e pigro, gliela dava. Nel 1982, quel gruppo allargato si ritrovò al potere. L’esito dell’operazione degli «esterni» fu osteggiato e contraddittorio, perché nel 1983 il «decidi Dc» demitiano fece perdere tre milioni di voti al partito: il verbo «decidere» era troppo forte per un partito intriso di cultura della mediazione e del compromesso. Ma la domanda era se quei consensi il partito non li avesse persi già da prima; e se quell’operazione non rappresentasse in realtà una consapevolezza del declino imminente, destinata a prendere corpo traumaticamente con la fine della Guerra fredda; e un tentativo di risposta ambiziosa, di qualità. Il 1983, però, fu usato dagli avversari interni per frenare l’operazione demitiana. E finì per accentuare le logiche di potere anche nella cerchia del segretario. Furono gli anni in cui si parlò di «clan degli avellinesi»; in cui il cinismo del padrone della Fiat Gianni Agnelli bollò De Mita come «un intellettuale della Magna Grecia». Lo scontro antropologico con Craxi Eppure, con tutti i limiti e le contraddizioni di un uomo del Sud che voleva modernizzare la Dc, De Mita vide e capì l’inadeguatezza di un modello di sistema politico e di società. In fondo, nel suo scontro quasi antropologico con Bettino Craxi, il leader socialista degli anni Ottanta, si intuiva anche la percezione di trovarsi di fronte qualcuno che aveva capito come e più di lui un’Italia in subbuglio; ma offriva soluzioni «decisioniste», da potere verticale e presidenzialista, indigeste alla cultura democristiana. Era un tentativo quasi disperato di stabilizzare il sistema, scegliendo il Partito comunista come interlocutore, sempre con lo sguardo rivolto alle strategie di Moro. Entrambi, Dc e Pci, dovevano arginare l’ascesa culturale, prima che elettorale, del craxismo. E De Mita, dal suo studio a Piazza del Gesù, più ancora che nella breve parentesi a Palazzo Chigi, fu la prima linea di questa resistenza. In realtà, quando diventò presidente del Consiglio il suo potere aveva già cominciato a erodersi. Stava smottando silenziosamente verso Forlani, Andreotti e proprio Craxi, il nemico. Il compito di provare l’ultima manovra di congelamento di un sistema vacillante toccò a loro, nel 1989. De Mita perse la segreteria, ma rimase a Palazzo Chigi per qualche mese ancora, assediato. E quando gli fu chiesto che cosa ne sarebbe stato di lui senza la segreteria della Dc, rispose d’istinto che bisognava chiedersi cosa sarebbe stata la Dc senza lui segretario. Perfido, Andreotti chiosò la sconfitta demitiana al congresso del partito sostenendo che era così convinto di essere vittima di un complotto da essersi suicidato politicamente per avere ragione. Forse. Ma l’uscita di scena di De Mita confermava una presunzione di eternità del potere democristiano che anticipava il suicidio politico collettivo del partito-Stato. La fine della Guerra fredda lo avrebbe certificato in modo drammatico. 26 maggio 2022 (modifica il 26 maggio 2022 | 12:17) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-26 11:21:00, L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto oggi nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, Massimo Franco