Sentiamo parlare sempre più spesso di episodi spiacevoli che si verificano a scuola, ma quanti sono legati da comportamenti volontari e quanti sono il frutto di disturbi del comportamento? Ne abbiamo parlato con il Professor Gian Marco Marzocchi docente di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso l’Università Milano Bicocca.
Professor Marzocchi, per iniziare ci dice quali sono i principali disturbi del comportamento che possiamo riscontrare a scuola?
Secondo i manuali diagnostici esistono diversi disturbi del comportamento che possono essere classificati e diagnosticati tra cui quello che probabilmente è il più conosciuto è il disturbo dell’attenzione e iperattività, ADHD, però esistono anche disturbi del comportamento più di tipo esternalizzato, come il disturbo oppositivo provocatorio, in cui il bambino ha più un atteggiamento che possiamo definire molto duro, oppositivo, nel senso che si oppone alle richieste, se non addirittura che volontariamente vada ad attaccare gli altri per riuscire ad ottenere una sorta di vantaggio relazionale, oppure per avere anche una sorta di riscatto o di rivincita agli occhi degli altri sempre dal punto di vista relazionale.
Poi ci sono delle forme ancora più gravi che sono quelli del disturbo della condotta in cui il ragazzo non si ferma solo ad un atteggiamento un po’ rigido, oppositivo ed anche provocatorio, ma diventa un vero e proprio comportamento di sfida, di violazione delle regole, di distruzione della proprietà o di ferimento dell’atra persona, per cui tutte le problematiche legate al bullismo a volte sono ascrivibili a ragazzi che hanno veri e propri disturbi della condotta, perché bullismo non è solo chi prende in giro, ma chi danneggia o ferisce le altre persone in modo volontario, sistematico e reiterato. L’ultimo disturbo comportamentale, secondo l’ICD-10, è il disturbo della condotta e dell’emotività, ovvero sono ragazzi che hanno un problema prima di tutto di tipo emotivo, nel senso che non si sentono valorizzati, riconosciuti, hanno un basso tono dell’umore, per cui dentro di sé in realtà sono tristi, sono depressi, ma esternamente mettono in atto dei comportamenti aggressivi in cui loro cercano un po’ di compensare questo basso tono dell’umore attaccando gli altri, per cui è un disturbo del comportamento con una forte base emotiva.
Quali sono gli elementi che accentuano comportamenti negativi e quali, invece, riescono a crearne un attenuamento?
Diciamo che l’ADHD si differenzia dagli altri disturbi perché è un disturbo del comportamento ma non finalizzato a ferire gli altri, è un disturbo del comportamento in cui il bambino ha bisogno di ricevere delle stimolazioni, soprattutto dal punto di vista attentivo e motivazionale, e quindi è iperattivo, non sta fermo, perché in quel momento si sta annoiando, ma non ha un’intenzione distruttiva nei confronti degli altri, del gruppo o degli oggetti. Gli altri invece hanno una maggiore intenzionalità perché hanno un problema di base emotivo/relazionale.
A questo punto c’è da domandarsi quali siano gli elementi che li incentivano di più, per quanto riguarda l’ADHD il problema può essere una scarsa organizzazione dell’attività a livello spazio-temporale, come ad esempio una lezione non ben strutturata, tempi morti o persi, demotivazione, disorganizzazione. Il fatto che il bambino non sa quello che deve fare aumenta il livello di problematiche e l’iperattività, mentre gli altri problemi, che hanno una base emotivo/relazionale, molto spesso si accentuano se il ragazzo si sente non accettato, non compreso, non riconosciuto, per cui parte da un senso di frustrazione, sostanzialmente, e noi sappiamo benissimo l’associazione che c’è tra frustrazione e aggressività. Sentirsi frustrati, giù di tono dell’umore, o sentirsi sul versante depresso, può diventare, soprattutto nei maschi che tendono ad esternalizzare, una reazione aggressiva. Quindi, e rispondo alla sua domanda, cosa fa aumentare questi tipi di comportamenti è il non sentirsi comprensione, di non sentirsi inclusi, è quel senso di emarginazione, di sentirsi di non andare bene, di non essere adeguato, di non essere all’altezza, di non funzionare come gli altri e di conseguenza dover stare lontano da loro, ecco queste percezioni fanno aumentare i livelli di aggressività.
Come dovrebbe comportarsi un insegnante di fronte alle varie casistiche che si possono presentare di cui lei accennava precedentemente?
Prima di tutto direi di tener conto esattamente dell’opposto di quello che ho appena detto, ovvero tener conto che, a parte i bambini con ADHD che possono essere aiutati con un lavoro sul coinvolgimento attivo, sulla motivazione, la strutturazione, l’alternanza tra attività statica e più di movimento, l’aspetto che è utile per i bambini con disturbo del comportamento su base emotivo-relazionale è soprattutto il pensare che si deve lavorare con loro per farli sentire più efficaci, il loro problema è il senso di frustrazione.
Quindi ritengo che prima di tutto sia importante la chiave di lettura dell’insegnante, ovvero, l’insegnante come interpreta il comportamento di quel bambino? C’è la solita retorica legata al fatto che sia la famiglia a non seguirli o educarli? Se vogliamo utilizzare quella chiave di lettura siamo liberi di farlo, ma non aspettiamoci che in classe i comportamenti di questi alunni migliorino, rimarranno così se non addirittura peggioreranno, perché il bambino sente che in fondo anche l’insegnante lo sta espellendo, lo sta allontanando, gli sta dicendo che lui non va bene e per uno studente con problemi emotivo-relazionali, che manifesta il comportamento, questo aumenta il problema. A questo punto, come seconda domanda, da insegnante mi chiederei quale chiave di lettura diamo tra colleghi. Perché se come gruppo docenti diamo una chiave di lettura condivisa e diamo un’idea di coerenza, questo ragazzo si sentirà più compreso in un’ottica non divergente.
Quindi il secondo punto è una lettura condivisa. La terza lettura è che tutto passa prima di tutto da noi adulti, ovvero se noi adulti vogliamo che questi ragazzi in classe mettano in atto dei comportamenti positivi, dobbiamo essere consapevoli che i ragazzi ci guardano e imparano innanzitutto dalle nostre azioni e non dalle nostre parole, per questo dobbiamo domandarci se noi effettivamente siamo il modello che vogliamo trasmettere a quel ragazzo affinché si comporti nel modo in cui voglio. Non solo, ma devo dimostrare di essere un modello convinto di quello che sto facendo, fermo nelle mie posizioni, coerente in quello che faccio e soprattutto motivato, perché se voglio motivare lo devo essere io per primo nel fare il mio lavoro di insegnante e, lasciatemelo dire, di educatore.
Non si possono scindere questi due aspetti, non posso essere solo un didatta, io sono un educatore perché innanzitutto vale la relazione. Posso aiutare questi ragazzi con problemi del comportamento se passo dalla relazione. Per questi ragazzi io come insegnante li devo sedurre, e se prima di qualsiasi altro aspetto io non li seduco non riuscirò ad agganciarli.
Un’ultima domanda, si registrano sempre più spesso episodi di violenza e di aggressione a scuola, sia tra alunni che nei confronti dei docenti, quali sono i percorsi che ci consiglia per creare un ambiente più sereno?
Prima di tutto l’aspetto critico per questi ragazzi che hanno problemi comportamentali è che non hanno ricevuta adeguati principi educativi. La lettura della delega, ovvero che questi bambini devono essere seguiti dai genitori o dai servizi, all’alunno arriva e scatta in lui quel meccanismo che lo fa pensare che anche l’insegnante lo vuole escludere. Questo porta lo studente alla frustrazione che sfocia nella rabbia e l’insegnante stesso può diventare il bersaglio di questa rabbia perché è quello facilmente attaccabile.
Invece quello che ritengo utile è di invertire questo ruolo, perché l’inversione del ruolo porta a dire che io come insegnante sono tutte le mattine a scuola perché ho un ruolo educativo e in quanto educatore non devo agire in modo repressivo, nel senso di reprimere e punire, i comportamenti negativi. La repressione e la punizione non educano, prima di tutto come adulti dobbiamo partire dall’idea che dobbiamo educare, dobbiamo insegnare, se vogliamo che nel nostro contesto educativo ci sia un clima di maggiore accettazione e di maggior rispetto dobbiamo partire dall’idea del rispetto tra le persone, quindi come insegnante, come adulto educante, dobbiamo domandarci quali valori abbiamo, a livello educativo, che vogliamo trasmettere.
Non è un percorso in cui mettiamo in atto delle strategie di gestione en passant, prima entro nella relazione e dobbiamo osservare che tipo di relazione abbiamo con il bambino problematico, dobbiamo capire se si fida di noi, se ha una relazione con noi significativa, che ci veda come una persona che, un po’ alla volta, possa essere credibile. Se passiamo la sua valutazione gli abbiamo fatto un enorme regalo, gli abbiamo insegnato una prospettiva di vita, ovvero che nella vita, nel mondo e nella relazione si possono rispettare gli altri e che rispettando gli altri si sta meglio piuttosto di mettere in atto delle azioni aggressive per reagire alle proprie frustrazione. Per concludere credo che non esistano semplicemente strategie da applicare, prima di tutto c’è la relazione, la relazione tra insegnante e alunno, il focus è quello, tutto il resto viene dopo, ma se non c’è quello tutto il resto non ha senso.
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