di Khalid Boudlal
L’arrivo dal Marocco a 14 anni, l’impatto col crimine, la svolta. «Decisivo è stato l’incontro con persone che hanno creduto in me». La detenzione trasformata in «percorso», storia in prima persona
Mi chiamo Khalid, ho 38 anni, sono di origini marocchine, vivo in Italia da molto tempo. Scrivo in fretta e mi scuso, tra poco devo uscire e alle otto bisogna che io sia già operativo sul furgone. Altre mattine, quando il furgone è impegnato, uso la macchina e faccio più viaggi. Sono fortunato perché ho la patente marocchina e non potevano ritirarmela, a molti altri con storie simila alla mia viene tolta. Ho sei persone con disabilità di vario tipo che mi aspettano ogni giorno: la mattina vado a prenderle a casa, le accompagno ai centri diurni che frequentano, al pomeriggio faccio il giro opposto. Non per tutte in realtà, alcune le riportano a casa i familiari, o altri operatori. In mezzo, nella parte centrale della giornata, come ogni anno a partire da questa stagione e fino a novembre mi cambio divisa e indosso quella da operatore del verde per occuparmi dei giardini del Comune qui a Cassano Magnago, in provincia di Varese.
Traguardo
È qui infatti che si trova la comunità Emmanuel in cui vivo attualmente. E in cui dovrò stare ancora per un po’. Non molto in verità, diciamo che ormai vedo il traguardo. Ma arrivarci è stata una strada lunga e avrei molte persone da ringraziare per questa seconda vita che oggi è la mia. Per carità, mi ci sono impegnato anche io. Ci volevano tutte e due le cose: non ce l’avrei fatta senza di loro, non ce l’avrei fatta senza di me.
Sono arrivato in Italia quando di anni ne avevo quattordici. Ho cominciato quasi da subito a spacciare e a mettermi nei guai. Per molto tempo ho vissuto in un mondo fatto di situazioni e persone irregolari, di nascondigli, di paura di essere arrestato. Cosa che infatti a un certo punto è successa. E all’inizio, quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo e pensavo cosa metterci dentro, le prime immagini che mi sono tornate in mente dopo tanti anni sono quelle del mio impatto col carcere. Un mondo di restrizioni e di sofferenza che ora mi sembra lontano, ma che ricordo molto bene. Non è di questo che voglio parlare però. Voglio parlare di quel che è venuto dopo e che mi ha fatto arrivare qui. Voglio dire una cosa che ho capito solo in seguito, guardandola a ritroso, e cioè che il carcere mi ha fatto incontrare persone che forse fuori non avrei mai incontrato. O magari sì, chi lo sa. Ma io le ho incontrate là, a San Vittore, nel reparto La Nave. E quella per me è stata la svolta.
Una équipe di psicologhe, operatrici e operatori, volontari. Persone che hanno creduto in me, mi hanno ascoltato, aiutato non solo a tirarmi su nei momenti difficili ma soprattutto a capire cosa volevo fare della mia vita. In quel reparto ho imparato a scrivere articoli per il mensile che costruivamo ogni mercoledì, ho cantato in un coro. A San Vittore ho incontrato papa Francesco che ha pranzato seduto tra noi e ha diviso la sua cotoletta con me, che tra l’altro sono musulmano. Ho conosciuto Marta Cartabia, quando non era ancora ministra ed era venuta a trovarci. E così un po’ per volta, insieme, e questa parola la ripeto, insieme, perché nulla si può fare senza aiuto di qualcuno da una parte e volontà personale dall’altra, mi sono ritrovato dentro un percorso. Non facile, per niente.
Un percorso di accettazione, comprensione, e poi stravolgimento totale di quelli che erano i miei abituali comportamenti di prima. Non sono «io» a essere cambiato, io sono sempre me stesso. Ma sono cambiate le cose che mi piacciono, che faccio, che penso. E il percorso è proseguito fuori, quando mi è stato proposto di andare avanti sulla strada della cura e del reinserimento attraverso una comunità, quella che mi ha accettato e in cui mi trovo tuttora. Pazienza e obiettivi precisi, questa è la via. E ora ho un lavoro, amicizie sane. Porto la mia testimonianza nelle scuole per evitare che altri ragazzi facciano gli stessi errori che avevo fatto io alla loro età. Certo, il timore di ricadere è sempre presente: esserci passato mi ha insegnato che la debolezza è sempre in agguato. Mai dare per scontato niente. Ma so anche di essere più forte, determinato, soprattutto consapevole di potere chiedere aiuto e che saperlo chiedere nei momenti difficili della vita è la prova di forza più grande che puoi dare.
Ah, dimenticavo la cosa più importante. Gioco a calcio nella squadra del San Carlo. Quest’anno per la prima volta non sono stato capocannoniere e questo un po’ mi brucia… ma siamo arrivati secondi, comunque promossi. E l’ultimo mese, giocato in pieno Ramadan, è stato durissimo: arrivare a fine partita e non poter neanche bere… ma è un esercizio di volontà anche quello. Tutto serve.
15 maggio 2022 (modifica il 15 maggio 2022 | 19:17)
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, 2022-05-16 03:29:00, L’arrivo dal Marocco a 14 anni, l’impatto col crimine, la svolta. «Decisivo è stato l’incontro con persone che hanno creduto in me». La detenzione trasformata in «percorso», storia in prima persona, Khalid Boudlal