È iniziato il nuovo anno scolastico con tante aspettative e qualche dubbio. Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara è iniziato il nuovo anno scolastico, lei in un post sui social ha preferito anziché fare gli auguri per il nuovo inizio delle attività, porre l’attenzione su un problema che riguarda gli alunni certificati, ovvero quello della privacy. Come possiamo conciliare il rispetto di questo diritto con un’efficace azione educativa e di integrazione?
Il problema della privacy è veramente molto spinoso, nel senso che spesso questi alunni hanno una certificazione pesante, la cosiddetta L. 104/82 che è la legge sulla disabilità, anche se poi alcune neurodiagnosi andrebbero analizzate attentamente perché sono dell’idea che non ci sono solo degli eccessi ma anche errori. Fatto salvo che un alunno abbia la certificazione sulla disabilità prevista dalla L. 104/92, sulla base di una diagnosi, di un disturbo piuttosto significativo, come sono i disturbi neuropsichiatrici, bisogna, ovviamente, garantire la privacy, come succede sempre in questi casi.
Quando una persona ha una malattia il sistema sanitario garantisce la privacy, di per sé anche la legge sull’integrazione garantirebbe la privacy, usiamo il condizionale, in quanto, come è noto, l’insegnante di sostegno che poi viene attribuito all’alunno con certificazione di disabilità in realtà non viene attribuito al singolo alunno, ma viene attribuito alla classe. La situazione è più complessa per i cosiddetti assistenti, che sono tanti e quindi la questione è un po’ più difficile, ma resta il principio: Privacy e assegnazione dell’insegnante di sostegno e degli assistenti alla classe e non al singolo alunno. Per questo ho fatto un appello per ripristinare lo spirito originario della legge sull’integrazione, ossia facciamo in modo che nessuno sappia di quale alunno si occupa l’insegnante di sostegno.
Questa è la vera integrazione, il resto rischiano di essere delle procedure scorrette, che si sono trascinate per motivi inerziali, ma che finiscono col creare dei pregiudizi, piuttosto che dei vantaggi, sui singoli alunni identificati con delle etichette. Molte scuole lo stanno già facendo, perché quando ho lanciato l’appello sono stato contattato da diversi Istituti che mi hanno detto che già lo facevano, e va bene, gli facciamo i complimenti, però bisogna che tutti lo facciano perché questa è la legge.
È un appello che rivolgo anche ai genitori, se per caso c’è questa corrispondenza così stringente, claustrofobica direi, tra l’insegnante di sostegno e l’eventuale alunno certificato con disabilità, per favore tutelate i vostri figli, non consentite che vengano sbandierati in aula o nella scuola dei disturbi che di per sé sono gravi, perché la L. 104/92 è una questione seria. Poi su questo se ne può discutere all’infinito, ritengo che l’eccesso di neurodiagnosi sia una questione molto seria.
Una volta si parlava di alunno difficile mentre oggi si parla di alunno disturbato, qualcuno prima o poi dovrà dare una spiegazione sul fatto che il concetto di alunno difficile sia letteralmente scomparso. Questo è il senso del mio appello alle scuole, la privacy è un diritto inequivocabile, garantito anche dalla convenzione sui diritti dell’infanzia, e va fatto rispettare assolutamente. Che tutta la classe sappia qual è l’alunno disabile e il suo insegnante di sostegno è un equivoco spaventoso che aggrava la situazione dell’alunno stesso, il sostegno è sulla classe.
Torniamo su un tema che abbiamo affrontato con lei diverse volte nelle nostre interviste che torna alla ribalta con l’avvio del nuovo anno scolastico. Molti istituti hanno attivato bandi per le figure degli psicologi scolastici, sicuramente necessari, ma continua a mancare l’attenzione verso l’introduzione sistemica della figura del pedagogista a scuola. Cosa possiamo fare per rafforzare la formazione pedagogica?
Possiamo dire che questo è un domandone, nel senso che la scuola si è allontanata dalle radici pedagogiche. Di per sé è stata anche una necessità, perché la pedagogia italiana è estremamente filosofica, basti pensare che la più grande pedagogista italiana e del mondo, Maria Montessori, ha dovuto andarsene perché l’accusavano di fare i “lavoretti”.
Esisteva un accademismo pedagogico terribile, dei filosofi mancati che si buttavano a fare poi i pedagogisti, anche per una questione di concorsi a cattedra. Oggi ci rendiamo conto che senza questa scienza la scuola si è inceppata. La gestione della classe come gruppo, come organismo socio-affettivo, la gestione di una didattica attiva, che coinvolga l’alunno, sono tutte questioni fondamentali. Provo a fare un esempio, girando in questi giorni per le scuole per dei convegni pedagogici in occasione dell’avvio dell’anno scolastico, ancora oggi in tante scuole i banchi sono monopolio assoluto dei collaboratori scolastici, lo trovo assurdo perché lo spazio dell’aula è titolarità assoluta degli insegnanti.
Non possiamo permettere questo, possiamo permettere, invece, una collaborazione tra insegnanti e collaboratori scolastici, ma allo stesso tempo dobbiamo dire che lo spazio dell’aula deve essere modulato a seconda delle attività che si stanno realizzando. Ci può essere un momento di frontalità, come ad esempio quando si guarda un film sulla LIM, ma poi ci possiamo mettere in piccoli gruppi o in semicerchio, specialmente all’inizio dell’anno scolastico dove si fanno attività anche di carattere socio-affettive o si fanno attività motorie, insomma la classe è uno spazio da cambiare continuamente, ma sono gli insegnanti che lo decidono. Questo è un esempio per dire come la mancanza di un substrato pedagogico preciso, chiaro, che faccia da sfondo a tutta la scuola, consenta questo “fai da te” che è veramente imbarazzante. Un altro esempio lo possiamo fare sull’introduzione del registro elettronico che è stata una scelta molto azzardata dal punto di vista pedagogico, pensate al fatto che i genitori conoscono i voti assegnati prima dei loro figli, l’alunno torna a casa e il genitore gli annuncia il voto che ha preso perché l’ha letto sul registro elettronico.
È necessario un codice comune, creare un linguaggio pedagogico comune nella scuola, è questo che manca, perché non riusciamo letteralmente a comunicare. È come se tra dirigenti, insegnati e genitori mancassero i codici comuni, linguistici proprio. Se dico mutuo insegnamento sto usando un concetto pedagogico che fa parte della storia della pedagogia, ma posso essere sicuro che un collegio docenti capisca cos’è il mutuo insegnamento? E che ci sia una corrispondenza di recezione professionale? La mancanza di un linguaggio comune nella scuola, che non può essere altro che quello pedagogico, ha creato, ad esempio, gli eccessi neurodiagnostici, ha creato l’idea che il bullismo sia un problema delle forze dell’ordine, è quanto di più equivoco e imbarazzante, il bullismo è un problema educativo. Oppure che la progettazione di una nuova scuola, come sta accadendo con il PNRR, sia un problema unicamente degli architetti, è un’assurdità, come fa l’architetto a progettare una scuola se non ha una consulenza pedagogica. Quindi si sono creati molti inceppamenti e la mancanza di un linguaggio pedagogico comune la stiamo pagando molto duramente.
Lei recentemente ha scritto un articolo sull’uso della tecnologia a scuola riportando un provvedimento del Governo svedese sull’uso dei tablet a scuola, un provvedimento che è molto ma che in Italia ha avuto poco risalto. Ce ne parla?
Il Governo svedese ha notato che dal 2016, quando c’è stato il boom della digitalizzazione scolastica, in particolare nei paesi del nord Europa, c’è stato un calo nelle capacità di letto-scrittura degli alunni. In circa 6/7 anni c’è stato un reale abbassamento della qualità delle competenze di letto-scrittura, quindi il Governo svedese è corso ai ripari, perché è inequivocabile che insistere con la tastiera sostituendola alla penna, come ci dicono alcune ricerche e come più volte ho sostenuto, crea degli inceppamenti neurocognitivi, perché viene meno la dimensione psicomotoria.
Se scrivo il mio nome e cognome con la penna sono costretto ad un’articolazione motoria che attiva le parti celebrali che ovviamente non saranno mai attivate nello stesso modo picchiettando con un o due dita sulla tastiera. I pochi esperimenti, in particolare negli Stati Uniti, di tentare di sostituire la scrittura con la penna con quella sulla tastiera ha creato dei disastri inenarrabili. Ovunque notiamo delle difficoltà sostanziali negli alunni, specialmente i piccoli, quando si finisce ad eccedere nella tecnologia digitale e concordo con il provvedimento adottato dal Governo svedese che ha tolto l’uso del tablet.
Com’è noto da questo punto di vista in Italia è un problema, perché l’unica linea di finanziamento sull’innovazione scolastica, negli ultimi otto anni, è stata quella. Stiamo arrivando a 1 miliardo di euro e probabilmente ci sarà un ulteriore miliardo dal PNRR. Si punta affinché ogni alunno abbia il suo account personale, che ogni alunno abbia un tablet, ci rendiamo conto che tutto questo è un problema, specialmente nella primaria, per non parlare dei progetti di alfabetizzazione digitale addirittura alla scuola dell’infanzia, e allora mi viene da dire se non fosse il caso di fare un viaggio in Svezia prima di prendere delle decisioni avventate, cerchiamo di capire perché hanno dovuto fare un passo indietro.
Facciamo attenzione al marketing perché è molto aggressivo, pensate alle scuole che mettono a disposizione un tablet per ogni alunno, girano delle cifre importanti. Ricordiamo cosa è successo durante il lockdown, dove le piattaforme digitali offrivano servizi con un ritorni di cifre vertiginose. Non dobbiamo pensare al business, ma dobbiamo pensare ai nostri alunni, restituiamo la tecnologia all’ambito che ha sempre avuto nella scuola, la tecnologia non è la metodologia, non possiamo dire che esiste la scuola digitale, esiste la scuola come comunità di apprendimento, la scuola è sempre quella, è la scholè, lo stare insieme per imparare qualcosa.
Un altro aspetto legato ai recenti episodi di cronaca ci porta a riflettere su come crescono i nostri giovani e sulla loro capacità di gestire le proprie pulsioni. Lei da tempo propone un metodo per imparare a litigare bene. Può essere questa una soluzione per contrastare i crescenti episodi di violenza tra i giovani?
Certo, abbiamo notato che il Governo è intervenuto con il cosiddetto decreto Caivano, dal nome del paese dove sono avvenute nefandezze particolari, cercando di contenere e in qualche modo andando verso una maggior punizione giuridico-giudiziaria dei nostri ragazzi. Al proposito va detto che il sistema giudiziario minorile italiano è molto invidiato a livello internazionale perché è basato sulla rieducazione e sul recupero, ma in maniera molto accentuata al punto che nelle carceri minorili italiane non ci sono tanti ragazzi, si usano misure alternative come la messa alla prova, oppure la mediazione penale che consente alla vittima e al suo aguzzino, come si dice, di ritrovare una ricomposizione, o qualcosa del genere, e quindi l’Italia non ha bisogno di incrementare l’accanimento carcerario nei confronti dei più piccoli, come vorrebbe qualcuno, ossia di portare la perseguibilità penale a 12 anni invece che a 14, sarebbe una scelta assolutamente scellerata, come anche tanti miei colleghi hanno giustamente sottolineato. Abbiamo bisogno, viceversa, di aiutare i ragazzi a vivere i loro contrasti nel modo migliore possibile, come dico da sempre “imparare a litigare bene”.
La scuola, purtroppo, su questo versante, specie per preadolescenti e adolescenti, fa fatica, bisognerebbe lavorare di più sull’aiutare gli alunni di questa fascia d’età a vivere le loro divergenze, farli discutere, confrontare. Noi abbiamo anche un metodo molto interessante, che potremmo approfondire in un’altra circostanza, che si chiama il dibattito maieutico.
Ma in tutti i casi è un apprendimento quello di saper stare con gli altri quando gli altri sono in disaccordo con te, quando le cose non vanno esattamente come previsto. Viviamo in un tempo narcisistico dove anche il fatto che qualcuno non ci dia ragione viene spesso vissuto come minaccia, non stiamo parlando solo dei ragazzi di Caivano, stiamo parlando di una generazione contratta socialmente e sotto il profilo della capacità di avere punti di vista diversi, la bellezza di avere punti di vista diversi. La scuola su questo deve essere impegnata, perché è la base della vita saper affrontare i conflitti e saperli affrontare bene, questa è la base stessa della sopravvivenza.
Con il termine di conflitto non stiamo parlando di guerra, ma stiamo parlando della quotidianità, dell’assemblea condominiale, dell’adolescente che non vuole andare a scuola, della raccolta familiare casalinga dove si è sempre in disaccordo, ossia i momenti della vita dove le cose non vanno esattamente come hai previsto, e quindi bisogna saperle affrontare, perché questo ti consente poi di stare con te stesso il meglio possibile e tanto più con gli altri. Purtroppo i ragazzi stanno crescendo troppo nella suscettibilità e nella permalosità e la scuola a volte sembra diventare complice di un eccesso di fragilità emotiva.
Invece dobbiamo rafforzarli, favorire i momenti di confronto e non liquidarli semplicemente, ognuno deve potersi esprimere. Il nostro Centro adotta dei dispositivi tra cui il più famoso è quello di saper litigare bene, un metodo di mia invenzione, di cui il libro, e ne sono orgoglioso, ad ottobre verrà tradotto anche in cinese.
Un’ultima domanda. Molti Istituti cercano di introdurre nuove metodologie di valutazione che superino il retaggio di una valutazione numerica. Considerato che siamo agli inizi dell’anno scolastico, secondo lei è possibile un cambio radicale che porti all’adozione di una valutazione evolutiva?
Senz’altro, attraverso l’autonomia scolastica che può creare dei dispositivi diversi. Anzitutto ricordiamo che alla Primaria i voti, fortunatamente, sono stati tolti giusto tre anni fa ripristinando e migliorando la normativa che era stata utilizzata fino al 2009 quando, incautamente, il Governo rimise i voti numerici. I voti numerici non vanno bene perché cristallizzano, favoriscono l’etichettatura, e poi ci sono anche situazioni grottesche, pensiamo ai voti da 2 e mezzo a 3–.
A tal proposito ho fatto un appello affinché una certa metrica non venga più utilizzata, perché veramente imbarazzante per chi la usa. Come fa un insegnante normodotato a mettere come voto dal 2,5 al 3–, i dirigenti dovrebbero intervenire su queste forme veramente al limite del sadismo. Ricordiamoci poi che, specialmente nella scuola secondaria di secondo grado, se all’inizio del secondo quadrimestre un alunno prende un voto terribilmente basso come un 3 o un 4, non è semplice gestire la situazione. La scuola è un luogo dove si impara e per imparare bisogna sbagliare, da tecnico resto dell’idea che la scuola debba valutare i progressi e non stigmatizzare gli errori, perché continuando come si fa durante le prove INVALSI a stigmatizzare gli errori poi l’alunno si blocca perché non capisce che sbagliando può imparare.
Certamente l’insegnante glielo dice e glielo ripete di non preoccuparsi per un voto basso, perché la prossima volta sicuramente ce la farà, ma non funziona così. Facendo un paragone calcistico, non si è mai visto che una squadra abbia vinto perché ha acquisito tanti insuccessi, nello sport si vince quando il successo ti spinge. Quindi soltanto una valutazione che valuta i progressi permette di mantenere motivazione nella scuola, è un problema assolutamente tecnico, non c’è in ballo niente di politico, e questo vorrei dirlo senza mezzi termini, perché la scuola che elimina i voti, diciamo così, e favorisce il processo di analisi dei progressi degli alunni diventa una scuola dove gli alunni vanno volentieri, dove corrono verso l’ingresso.
Il problema è molto grave nei cicli delle scuole secondarie, per la Primaria, per fortuna, avendo solo questi giudizi narrativi con quattro misure, c’è stato un deciso miglioramento e lo noto quando parlo con i genitori trovandoli più tranquilli e rassicurati. Non sono neanche dell’idea che i genitori vadano a cercare la corrispondenza di questi giudizi con i voti. Su questo mi permetto di fare un’avvertenza, che sono costretto a ribadire, dicendo di fare attenzione ai genitori che sono un mondo molto magmatico dove spesso gli insegnanti confondono le minoranze rumorose per la maggioranza, non è così.
I genitori, per quello che li conosco io, sono normalmente attenti al benessere dei loro figli a scuola, non hanno nessuna intenzione di trasformare la scuola in una gara. Certo ci sono anche questi genitori, quelli che mandano a scuola i figli con gli abiti firmati, che continuano a fare i confronti, che sui gruppi Whatsapp dei genitori scrivono nefandezze inaudite, ma non sono assolutamente la maggioranza, facciamo attenzione a non attribuire a tutti i genitori quelli che sono comportamenti assolutamente minoritari.
La Supermamma non è la norma tra i genitori, che invece vivono la scuola, nella maggioranza, come una grande occasione e che nel complesso hanno una estrema fiducia degli insegnanti, questo ce lo riportano anche le ricerche. Bisogna semplicemente stare più tranquilli senza prendere alla lettera tutto quello che succede e restituire il giusto peso alle situazioni che si creano, specialmente non prendere alla lettera i genitori esagitati, che ci sono sempre stati, ma che oggi con il sistema dei social diventano veramente impertinenti e petulanti, lasciamoli al loro destino così tuteliamo l’azione educativa della scuola.
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