di Ernesto Mascioli*
Il racconto vincitore del Premio «La scrittura non va in esilio» 2022 ideato dal Centro Astalli. Padre Ripamonti: «Educare le nuove generazioni al rispetto dei diritti umani»
Più di 800 studenti delle scuole superiori di oltre 15 città italiane hanno partecipato alla premiazione di «La scrittura non va in esilio», all’Auditorium del Massimo a Roma: un premio ideato dal Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati, per sensibilizzare i ragazzi sulle migrazioni. E padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, sottolinea come: «Ampliare spazi e contesti in cui le nuove generazioni siano educate al rispetto dei diritti umani, alla solidarietà e all’accoglienza è quanto mai necessario. Creare una sensibilità sociale che rifiuti ogni forma di discriminazione e stigma – aggiunge – è la via da percorrere con convinzione per costruire la pace. I giovani sono aperti e hanno a cuore i problemi dell’umanità. Coltivare questo afflato è compito che il Centro Astalli si assume collaborando con tante scuole e tanti insegnanti, veri e propri custodi di democrazia, libertà e giustizia». Un evento che è stato l’occasione anche per consegnare il riconoscimento «Scuola amica dei rifugiati» agli istituti che promuovono tra gli studenti la realizzazione di iniziative di sensibilizzazione con l’obiettivo di creare una società più giusta, più aperta e più accogliente. (Lilli Garrone)
Ed ecco il racconto vincitore: «Cinque Voci» di Ernesto Mascioli, Liceo scientifico Vito Volterra di Ciampino
VIKTOR Che cos’è la paura? Credevo di saperlo, ma mi sbagliavo. Da ieri so cos’è la paura. La paura di perdere i miei cari, la mia casa, la mia vita. È il 25 febbraio 2022, mio padre sta andando a combattere contro gli invasori e io ho paura che non torni più. È il 25 febbraio, io sto per lasciare la mia casa e ho paura che non ci tornerò più. È il 25 febbraio e la mia vita prima di adesso non tornerà più, ma svanirà assieme al cielo azzurro. Mi chiamo Viktor Ivanov, ho sedici anni e abito ad Alčevsk, distante 35 km da Luhansk e 80 km da Donetsk. Mio padre, Borys, è partito alla volta della guerra e io prego Dio che torni vivo da me. «Vai via da questo posto» mi diceva. «Vai dove ci sarà la pace. Emigra e fatti un futuro in un’altra città, in un altro Paese, che tu chiamerai “casa”». Io gli dicevo sì e pensavo a mio fratello Stanislav, che è andato in Italia tre anni fa per studiare archeologia. Pensavo che a diciotto anni, avrei fatto le valigie, avrei salutato tutta la mia famiglia e il mio quartiere e me ne sarei andato tra gli applausi, non so diretto dove. Invece, ora sono qui nella mia cameretta, a piangere. Piangere perché il mio futuro non è nelle mie mani. Né in quelle di mamma o di papà o di nessun altro. Il mio futuro è un gioco d’azzardo, in cui non so se un numero tra i tanti mi salverà la vita o mi ucciderà. C’è la porta chiusa, ma sento benissimo la mia sorellina Anna che piange. E sento anche la mamma: è lì vicino e piange. Ora prenderemo l’auto e lasceremo questa casa, questa città e questo Paese nelle mani dei carri armati. E lasceremo papà nelle mani dei soldati russi, se avranno pietà oppure no.
NATALIJA Ho paura. Una mamma non dovrebbe avere paura, o almeno così mi è stato insegnato. Ma io ho paura. Ho paura di non riuscire a portare in salvo i miei figli. Ho paura di non rivedere più il mio amato Borys. Ho paura di non tornare più alla mia vita tranquilla, basata sull’amicizia e sulla famiglia. Ho paura di dover vivere d’ora in poi tra le bombe. E sono queste che mi hanno spinto a fuggire. È il 26 febbraio 2022 e io sto portando i miei figli Anna e Viktor fuori da questo posto in guerra. «Dove andiamo?» mi chiede Anna. «Mamma, dove ci stai portando?» mi domanda Viktor. Il fatto è che io non lo so. Non so dove andare, cosa fare. Non sono più la mamma onnisciente che sa sempre cosa fare e dove andare. Ora vorrei solo staccare la spina e pensare a tutto con calma. «Ma il tempo non te lo regalano», come ha sempre detto Borys, mio marito. «Se il tempo è poco, non puoi chiederne altro. Ti devi accontentare». «Andiamo a Roma», ho detto. «Roma è dove abita Stanislav?», hanno risposto entrambi all’unisono. Stanislav è il mio primogenito. Ha ventuno anni e tre anni fa, è emigrato a Roma. Io non conosco l’Italia e non conosco Roma, ma conosco Stanislav. L’ho contattato e lui ha detto che ci aspettava con ansia, sebbene il suo appartamento fosse piccolo. Ma poi mi ha fatto la domanda fatale: «Dov’è papà?». E sono scoppiata in un pianto, che non sono riuscita a trattenere. «Una madre non dovrebbe mai mostrarsi debole davanti ai suoi figli», mi diceva la mia mamma. Al contrario, io mi sono mostrata fallibile, come un qualsiasi essere umano. Ho chiesto ai miei due figli più giovani di sostenerci emotivamente a vicenda. E ci siamo abbracciati tutti e tre come mai abbiamo fatto. È il 26 febbraio 2022 e oggi ho capito quanto conta davvero la mia famiglia per me.
BORYS Che cos’è un confine? È la linea che si frappone tra i carri armati russi e i carri armati ucraini . Ed è la linea che si frappone tra la vita e la morte. Il confine corrisponde esattamente a entrambe le descrizioni e si chiama guerra. È il 27 febbraio 2022 e io sono in equilibrio precario sul confine della guerra. Qui non si sta male come si dice. Si sta peggio. Si cammina a terra, tra il fumo, le macerie, il sangue e le urla. Tra la paura e tra la morte, che serpeggiano sotto ai piedi, pronte a prenderti e portarti con sé. Qui si vedono le peggiori cose immaginabili. Dobbiamo uccidere per comando i nostri fratelli. I russi, che parlano la nostra stessa lingua, mangiano il nostro stesso cibo e hanno i nostri stessi nomi. I russi, che hanno le nostre stesse facce, i nostri stessi sentimenti e la nostra stessa voglia di tornare a casa. I russi, che ci uccidono lo stesso; e noi che li uccidiamo di risposta. Qui in guerra, chi è vivo fuori, è comunque morto dentro. Io stesso, non mi sento vivo. Mi sento morto. Mi sento solo. Vedo due uomini con gli stessi sguardi e la stessa età, ma so che uno mi ammazzerà e l’altro mi salverà. Vedo del sangue e non so se sia il mio, quello di un mio compare o quello del nemico. E in nessuno di questi casi sono felice. Non sono più Borys Ivanov, ma sono il soldato Ivanov e mi è stato detto di uccidere o morire per la patria. Mi sento morire. Non so più se dentro o fuori, e quasi non mi interessa. Perché sono stanco e ho bisogno di riposare in pace.
ANNA Per crescere ci vuole tempo. Lo dicono tutti. Anch’io lo dicevo, quando parlavo con le mie amiche. Tutto questo fino a quando non sono venuta a scuola a dire che me ne sarei andata. Allora, ho capito che io non avrei avuto il tempo per crescere. Ho capito che nei momenti difficili si deve crescere in fretta. Così, è il 28 febbraio 2022 e, nonostante io abbia dieci anni, sto imparando a diventare una donna. Sono sempre stata quella ottimista della famiglia, quella che vede il lato positivo in tutto. Ma ora sto crescendo, e mi rendo conto che non sempre c’è un lato positivo e uno negativo. Ma ce ne sono tanti positivi e tanti negativi; qualche volta quelli negativi sono di più, e questo è il nostro caso. Però, io almeno un lato positivo lo vedo sempre: rivedrò mio fratello. Ma forse non rivedrò mio padre. Viaggerò alla volta dell’Italia. Sarà divertente mangiare la pizza italiana o vedere il Colosseo. Stanislav mi dice sempre che Roma è bellissima. Però forse, non rivedrò più la mia terra, l’Ucraina. Chissà come starà papà: spero stia bene. Da oggi, gli scriverò una lettera ogni giorno, sperando che mi risponda.
VIKTOR Ora potrei tirare un sospiro . Ho abbracciato mio fratello Stanislav, sono al sicuro con mia madre e mia sorella. Ma so che non va bene. Saranno tutti accoglienti per farmi sentire a casa, ma io non sarò a casa. Casa mia è sotto le bombe e mio padre ha un fucile in mano. È il 4 marzo e ci è arrivata una mail, firmata dal generale della zona dell’esercito in cui è stato mandato papà. Mamma l’ha letta per prima. Poi si sono sentiti un urlo e un pianto. Cos’è il dolore? Credevo di sapere anche questo, ma non ci capivo niente. Il dolore è lasciare la propria casa, ormai ridotta in macerie, perdersi in un luogo ignoto, scappare da una guerra e infine rimanere orfano di padre. Questo è il dolore, un dolore ingiusto. Ingiusto per noi, che abbiamo sofferto tanto e che siamo stati condannati a soffrire ancora di più. Il dolore, la rabbia, la tristezza, la paura e l’amarezza si incontrano in questo momento e mi spezzano il cuore in infiniti pezzi. Non volevo ricordare così il mio primo giorno in Italia.
STANISLAV Mi chiamo Stanislav Ivanov e ho ventuno anni. Tre anni fa sono arrivato qui in Italia, per studiare archeologia. Vi devo ringraziare per la vostra disponibilità e la vostra gentilezza. Vi devo ringraziare perché mi avete accolto. Devo ringraziare i ragazzi che mi hanno insegnato l’italiano, quelli che ora sono i miei amici. Devo ringraziare tutti voi. Ma devo anche dirvi che molti di voi sono falsi. Quando parlano dell’Ucraina, non parlano della guerra, della comunicazione che non esiste più, dei miei nonni che vivono senza elettricità e acqua corrente, di mio padre che è morto per niente o di noialtri che non sappiamo come arrangiarci in un Paese che non conosciamo. Pensano all’aumento del costo della benzina. Temono un inverno al freddo, anche se nessuno di loro conosce il freddo delle mie parti. Non pensano che il gas delle loro caldaie va a finanziare le armi russe che hanno ucciso migliaia di soldati e di civili. Pensateci. Mettetevi nei panni della mia famiglia o nei panni di chi è ancora lì e non dorme più, per paura dei bombardamenti notturni. Ricordatevi che chi è scappato dalla guerra non è pazzo: ha solo paura. Paura di perdere i propri cari, la propria casa, la propria vita. Paura di non rivedere più il cielo azzurro. Paura della guerra. Paura.
*studente del Liceo scientifico Vito Volterra di Ciampino
21 ottobre 2022 (modifica il 21 ottobre 2022 | 10:59)
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, 2022-10-21 09:07:00, Il racconto vincitore del Premio «La scrittura non va in esilio» 2022 ideato dal Centro Astalli. Padre Ripamonti: «Educare le nuove generazioni al rispetto dei diritti umani», Ernesto Mascioli*