No dei sindacati Raiallo show di Fiorello:occupare gli spazidel Tg1 Mattinaè come uno sfregio

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di Enrico Girardi

Il redivivo Roberto Alagna, la cui voce è più pesante e meno agile di un tempo, fatica qui e là, specie nell’aria del primo atto, ma trova gli acuti che infiammano la platea

È così prepotente oggi la riabilitazione critica del Verismo che rischia di passare per cariatide chi non spreca aggettivi roboanti sul suo conto. Resta però il fatto che reca con sé drammi enfatici che richiedono vocalità enfatiche in una gara all’eccesso che non sembra un modello di stile. Ciò succede alla prima di Fedora (1898) di Umberto Giordano, che il pubblico della Scala accoglie con ampio favore riservando al solo regista Mario Martone qualche dissenso. Con la direzione di Marco Armiliato, l’orchestra mulina sonorità accese e roboanti al punto da indurre la compagnia di canto a peripezie non da poco. Sonya Yoncheva ha dizione faticosa e vibrati marcati ma regge l’urto. Il redivivo Roberto Alagna, la cui voce è più pesante e meno agile di un tempo, fatica qui e là, specie nell’aria del primo atto, ma trova gli acuti che infiammano la platea.

Ma i pur bravi Serena Gamberoni (Olga) e George Petean (De Siriex), che guidano i comprimari, stentano a stare a galla, specie nei pezzi d’insieme. Insomma, non è serata tanto avvincente, anche se resta preferibile una Fedora che pecca per eccesso a quella che peccasse per difetto. La regia di Martone – non la sua più ispirata ma godibile – riesce però a distogliere l’attenzione dai difetti di una esecuzione non «da Scala». Sottolinea i punti nodali del composito dramma di Sardou che ispira l’opera, un giallo passionale tra Russia, Francia e Svizzera, servendosi di una serie di citazioni pittoriche da René Magritte, secondo una cifra elegante che mentre si tiene equidistante tra illustrazione e astrazione, raffredda i bollori degli «effetti senza causa».

17 ottobre 2022 (modifica il 18 ottobre 2022 | 20:45)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-10-18 18:46:00,

di Enrico Girardi

Il redivivo Roberto Alagna, la cui voce è più pesante e meno agile di un tempo, fatica qui e là, specie nell’aria del primo atto, ma trova gli acuti che infiammano la platea

È così prepotente oggi la riabilitazione critica del Verismo che rischia di passare per cariatide chi non spreca aggettivi roboanti sul suo conto. Resta però il fatto che reca con sé drammi enfatici che richiedono vocalità enfatiche in una gara all’eccesso che non sembra un modello di stile. Ciò succede alla prima di Fedora (1898) di Umberto Giordano, che il pubblico della Scala accoglie con ampio favore riservando al solo regista Mario Martone qualche dissenso. Con la direzione di Marco Armiliato, l’orchestra mulina sonorità accese e roboanti al punto da indurre la compagnia di canto a peripezie non da poco. Sonya Yoncheva ha dizione faticosa e vibrati marcati ma regge l’urto. Il redivivo Roberto Alagna, la cui voce è più pesante e meno agile di un tempo, fatica qui e là, specie nell’aria del primo atto, ma trova gli acuti che infiammano la platea.

Ma i pur bravi Serena Gamberoni (Olga) e George Petean (De Siriex), che guidano i comprimari, stentano a stare a galla, specie nei pezzi d’insieme. Insomma, non è serata tanto avvincente, anche se resta preferibile una Fedora che pecca per eccesso a quella che peccasse per difetto. La regia di Martone – non la sua più ispirata ma godibile – riesce però a distogliere l’attenzione dai difetti di una esecuzione non «da Scala». Sottolinea i punti nodali del composito dramma di Sardou che ispira l’opera, un giallo passionale tra Russia, Francia e Svizzera, servendosi di una serie di citazioni pittoriche da René Magritte, secondo una cifra elegante che mentre si tiene equidistante tra illustrazione e astrazione, raffredda i bollori degli «effetti senza causa».

17 ottobre 2022 (modifica il 18 ottobre 2022 | 20:45)

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, C. Maf.

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