Fermare subito la riforma

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accaduto con il M5s dopo i risultati alle ultime elezioni politiche, si ripete oggi con la Lega dopo il responso della consultazione regionale in Lombardia. Le aspettative create dai sondaggi pre-elettorali trasformano, a spoglio ultimato, sconfitte di vaste dimensioni in tenute sostanziali, significative affermazioni o, addirittura, esaltanti vittorie. Con fuorvianti effetti nella lettura delle indicazioni emerse dalle urne. il copione che sta andando in scena nei commenti del risultato della Lega in Lombardia. Eppure, i numeri lasciano pochi dubbi. Tanto per cominciare, nelle regionali del 2018, la Lega ottenne nella sua roccaforte 1.553.787 voti (29,6%); domenica e luned scorsi ha raccolto 476.175 voti (16,5%). Pur aggiungendo i consensi della Lista del presidente (poco pi di 177mila voti a fronte dei 76.644 conquistati dalla stessa lista cinque anni fa), il partito di Salvini ha perso tra una consigliatura regionale e l’altra pi di 976mila in Lombardia. Non basta. Il suo governatore, Fontana, stato rieletto con poco pi di un milione e 774 mila voti (quasi gli stessi della sola Lega nel 2018) rispetto ai 2.793.570 di cinque anni fa (oltre un milione in meno). Se questa una tenuta del partito o una affermazione del buongoverno regionale della Lombardia, allora urgente ridefinire i significati delle parole del nostro vocabolario. C’ chi ha sottolineato che il confronto tra le due elezioni regionali forzato perch si tratta di due epoche politiche completamente diverse. Passi pure. Si scelga allora il confronto con le elezioni pi recenti, quelle del settembre scorso per il rinnovo del Parlamento. Cinque mesi fa, il partito di Salvini nel proporzionale alla Camera in Lombardia ottenne 671.814 voti: il buco rispetto alle ultime Regionali di altri 200mila voti persi. Tutto ci, nonostante la forzatura leghista di far approvare prima delle elezioni il disegno di legge sull’autonomia differenziata per sbandierarlo come un successo storico agli elettori lombardi. Dove stanno, dunque, la tenuta, l’affermazione o, addirittura, la vittoria di cui parlano i dirigenti leghisti? E dove sta, visti i risultati, quella spinta forte del Nord per una maggiore autonomia delle Regioni e per un rilancio del regionalismo differenziato, rivendicato da Fontana subito dopo la rielezione come una indicazione del popolo? Benedette quelle vecchie e severe scuole di partito dove si insegnava ai dirigenti l’analisi del voto, i cambi di fase, le indicazioni dell’elettorato e le necessarie (ri)connessioni sentimentali con la societ. Se vero che la volont popolare si esprime innanzitutto nelle urne (o disertandole) e ha ancora un valore, allora il responso della Lombardia (e del Lazio) stato netto e univoco. Nella bocciatura del regionalismo e dell’autonomia differenziata. Sia per il risultato negativo della Lega e, ancora di pi, per il tasso record di astensionismo raggiunto dagli elettori lombardi. Il crollo di oltre 30 punti percentuali nell’affluenza alle Regionali tra il 2018 (73,8%) e il 2023 (41,6%) spaventoso. E, a proposito del pessimo stato di salute del regionalismo anche al Nord, il dato risulta ancora pi significativo se raffrontato con quello del 1970 quando, all’esordio del voto per le Regioni, alle urne si rec oltre il 95% dei lombardi. In molti hanno spiegato il crollo dell’affluenza con lo scarso interesse popolare per l’assenza di una reale competizione tra gli schieramenti, visto che il risultato finale — la rielezione di Fontana — appariva pi che scontato alla vigilia. Pu darsi che ci sia una parte di verit in questa lettura. Ma se appena cinque mesi fa, alle Politiche, dove il risultato era altrettanto e largamente scontato in tutti i collegi uninominali, vot il 70,1% dei lombardi, e se nelle elezioni comunali degli ultimi cinque anni il calo dell’affluenza stato sempre di gran lunga inferiore a quello registrato nelle Regionali, forse c’ dell’altro. C’ anche, e soprattutto, la evidente dissociazione tra l’elettorato e un’istituzione che nulla ha a che fare con la storia, le tradizioni, i tratti distintivi e i sentimenti della cultura civica italiana. C’ la lontananza e la sfiducia dei cittadini nei confronti dei palazzi della politica regionale, che hanno riproposto e accentuato tutti i peggiori vizi e difetti del centralismo. Al Nord come al Sud. E c’ la percezione, ormai diffusa, che le domande e le aspettative dei governati sono riposte molto pi nello Stato e nei Comuni che nelle Regioni, considerate troppo grandi e distanti per offrire risposte dirette e quotidiane ai cittadini, e troppo piccole per ricoprire funzioni strategiche su materie complesse e di interesse generale. Il (non) voto in Lombardia e nel Lazio conferma che il regionalismo fallito e dimostra che il disegno di autonomia differenziata non rappresenta un’oggettiva necessit del Paese, di tutto il Paese. giunto in porto pi per l’esclusiva volont di un partito, ormai in difficolt e minoritario, di piazzare in retromarcia una bandiera simbolico-identitaria, che per rispondere a un’urgenza dettata da una domanda maggioritaria dei cittadini. Ed un progetto che non parla nemmeno pi a tutto il Nord, come dimostrano le nette posizioni critiche espresse da esponenti del mondo produttivo settentrionale, a cominciare dal leader nazionale di Confindustria, da dirigenti di molte associazioni di categoria, oltre che dai sindacati. In questo scenario, e alla luce del bilancio fallimentare degli ultimi 50 anni, insistere sull’autonomismo regionalista — seppur previsto nella Costituzione — una scelta irresponsabile. E, soprattutto, pericolosissima. Perch, trasferire oggi alle Regioni ancora pi poteri e competenze — persino su scuola, energia e rapporti con l’Europa — vuol dire sottovalutare e allargare un aberrante vuoto democratico. Il vuoto creato da quell’intreccio perverso tra scarsa legittimazione popolare dei governi regionali e accentuata torsione presidenzialista, negli ultimi decenni, a tutto svantaggio delle assemblee consiliari. I depositari quasi esclusivi di nuovi poteri e competenze sarebbero di fatto i presidenti, padroni indiscussi delle future piccole patrie, seppur scelti ormai da molto meno della met della platea elettorale e, magari, con la sola maggioranza relativa dei voti validi. Se una cos evidente questione democratica non merita una riflessione seria e un immediato rovesciamento del tavolo sul para-federalismo regionalista, allora siamo davvero messi male. anche per questo, non solo per i gravi svantaggi provocati al Sud, che lo stop all’autonomia differenziata dovrebbe diventare un obiettivo comune nazionale, con la convergenza tra ampi settori della maggioranza e ampi settori dell’opposizione. Lasciando sbollire le ossessioni identitarie, ormai anacronistiche, della dirigenza leghista. 18 febbraio 2023 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA , , https://www.corriere.it/rss/politica.xml,

Pietro Guerra

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