Mezzogiorno, 11 settembre 2022 – 08:35 di Mario Rusciano S’avvicina il 25 settembre. Le forze in lizza si scambiano strali senz’esclusione di colpi. Fortunatamente c’è accordo almeno sugli aiuti (tardivi) a imprese e famiglie per compensare il prezzo vertiginoso delle bollette dell’energia. È naturale lo scontro politico, non l’intensificarsi di dubbi e interrogativi sulle posizioni dei «maggiori» partiti. Soltanto dei maggiori partiti? Sì, perché sono troppe le liste irrilevanti. Che, pur costituzionalmente legittime, servono a confondere il quadro politico e disperdere voti. Esse cavalcano strani umori popolari. Qualche esempio: Paragone i no-vax; De Magistris l’anarcoide sinistrismo radicale (dimenticando i disastri napoletani!). Sono aggregazioni posticce antisistema, nate per assicurarsi il «diritto di tribuna» o per soddisfare l’esigenza di qualche presunto leader dell’ultim’ora (forse disoccupato), d’arrivare al 3% per un seggio in Parlamento. Aspirazione mal riposta — coi diminuiti seggi disponibili — ma alimentata dagl’incomprensibili conteggi nascosti nelle pieghe della legge elettorale. Definita «pessima» da tutti, ma che nessuno ha avuto tempo e voglia di rifare dopo la riduzione dei parlamentari voluta dal M5S. Il quale, da partito di maggioranza relativa nel (disciolto) Parlamento, pur avendo il dovere di pensarci, non se n’è preoccupato dedicando attenzione alla sola «sua» riforma costituzionale. Per elementare coerenza logica avrebbe dovuto mettere assieme legge elettorale e riduzione dei parlamentari (peraltro discutibile). Il M5S dunque, benché non da solo, oltre all’aver disarcionato Draghi, porta pure la maggiore responsabilità di questo grave inadempimento legislativo, che altera rappresentanza e rappresentatività parlamentare. Proprio codesta alterazione solleva dubbi e interrogativi sull’atteggiamento dei partiti in campo. L’interrogativo di quasi tutti i cittadini: perché il centrodestra è più capace di compattezza elettorale, pur essendo all’interno più diviso del centrosinistra? Pare che solo grazie ai sondaggi sfavorevoli il centrosinistra si sia accorto dell’errore di non trovare l’unità nel presentarsi all’elettorato. E adesso, con imperdonabile ritardo e comunque diviso, tenta di correre ai ripari mettendo in guardia i cittadini sulle complicate conseguenze (nazionali, europee e internazionali) di una vittoria della destra. Il dubbio però è che non di disattenzione si sia trattato bensì dell’esigenza del M5S e della lista Calenda-Renzi, di misurare l’effettivo loro peso politico. Come dire che, per questi due «poli», il proprio interesse prevale su quello del Paese. Ci voleva tanto a capire che, con questa legge elettorale, nell’interesse del Paese occorreva l’unità del centrosinistra per fronteggiare l’unità del centrodestra. Solo così ci sarebbe stato un chiaro responso delle urne. Senza dubbio la divisione del centrosinistra ha agevolato il centrodestra nei sondaggi. Vedremo come finirà. Ma certo, per qualche punto in più nei sondaggi di M5S e di Calenda-Renzi, si rischia di consegnare il governo dell’Italia alla destra in un momento di grave crisi. Con effetti imprevedibili: non tanto per il pericolo fascista, francamente improbabile, quanto per due semplici ragioni. La prima: le divisioni tra i partiti della destra, ora tenute in ombra pur di vincere le elezioni, sono assai profonde e presto verranno alla luce facendo riprecipitare il Paese in una nuova e più acuta crisi politica. Riusciranno Meloni e Salvini a ricucire, nel governo, le loro opposte idee su scostamenti di bilancio, flat tax, pensioni a 41 anni di contributi, ridiscussione nell’Ue del Pnrr, sanzioni alla Russia e aiuti (anche di armi) all’Ucraina ecc.? Tante onerose promesse senza dire dove prendono i soldi? Taglieranno sanità e servizi sociali? Su questi problemi non piccoli Salvini accelera e Meloni frena. Chi l’avrà vinta? E a quale prezzo per i cittadini? La seconda ragione è più inquietante. Ove mai la destra avesse una maggioranza autosufficiente per stravolgere l’assetto istituzionale della Costituzione, è evidente che il compromesso tra Meloni e Salvini sarebbe il «presidenzialismo» di Meloni, devastante quanto l’«autonomia differenziata» di Salvini. Due progetti in grado di dividere la «Repubblica una e indivisibile» e di abbandonare il Mezzogiorno al suo destino, ai suoi ritardi, alle sue contraddizioni e carenze. Non è un caso che, soprattutto a destra, del Mezzogiorno nessuno parla. L’hanno notato negli ultimi giorni sul nostro giornale il direttore Enzo d’Errico e Paolo Macry. Del resto non è nel costume della destra intrattenersi sull’eguaglianza sostanziale e sulla giustizia sociale, seriamente compromesse dall’autonomia differenziata. Nei programmi elettorali solo vaghi e generici accenni, quando ci sono. L’intoccabilità del «reddito di cittadinanza» — grande risorsa del Mezzogiorno — per ora ha solo fatto guadagnare al M5S qualche punto nei sondaggi. Gli altri partiti vogliono riformarlo, non abolirlo: i poveri vanno aiutati! Nessuno però sa cosa davvero pensa Giorgia Meloni sul destino del Sud: ha solo detto che l’autonomia differenziata non lederà l’unità del Paese. Può bastare? Clamoroso poi il silenzio di Salvini: non ammetterà mai che chiede voti al Sud per agevolare il Nord, ma è così. Del «grande trasformatore» della Lega Nord in «Lega nazionale» si ricorda soltanto la proposta d’istituire — beninteso a Milano! — il «Ministero dell’innovazione, digitalizzazione e intelligenza artificiale». Fosche nubi s’addensano sul destino del nostro Mezzogiorno! 11 settembre 2022 | 08:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-11 06:36:00, Mezzogiorno, 11 settembre 2022 – 08:35 di Mario Rusciano S’avvicina il 25 settembre. Le forze in lizza si scambiano strali senz’esclusione di colpi. Fortunatamente c’è accordo almeno sugli aiuti (tardivi) a imprese e famiglie per compensare il prezzo vertiginoso delle bollette dell’energia. È naturale lo scontro politico, non l’intensificarsi di dubbi e interrogativi sulle posizioni dei «maggiori» partiti. Soltanto dei maggiori partiti? Sì, perché sono troppe le liste irrilevanti. Che, pur costituzionalmente legittime, servono a confondere il quadro politico e disperdere voti. Esse cavalcano strani umori popolari. Qualche esempio: Paragone i no-vax; De Magistris l’anarcoide sinistrismo radicale (dimenticando i disastri napoletani!). Sono aggregazioni posticce antisistema, nate per assicurarsi il «diritto di tribuna» o per soddisfare l’esigenza di qualche presunto leader dell’ultim’ora (forse disoccupato), d’arrivare al 3% per un seggio in Parlamento. Aspirazione mal riposta — coi diminuiti seggi disponibili — ma alimentata dagl’incomprensibili conteggi nascosti nelle pieghe della legge elettorale. Definita «pessima» da tutti, ma che nessuno ha avuto tempo e voglia di rifare dopo la riduzione dei parlamentari voluta dal M5S. Il quale, da partito di maggioranza relativa nel (disciolto) Parlamento, pur avendo il dovere di pensarci, non se n’è preoccupato dedicando attenzione alla sola «sua» riforma costituzionale. Per elementare coerenza logica avrebbe dovuto mettere assieme legge elettorale e riduzione dei parlamentari (peraltro discutibile). Il M5S dunque, benché non da solo, oltre all’aver disarcionato Draghi, porta pure la maggiore responsabilità di questo grave inadempimento legislativo, che altera rappresentanza e rappresentatività parlamentare. Proprio codesta alterazione solleva dubbi e interrogativi sull’atteggiamento dei partiti in campo. L’interrogativo di quasi tutti i cittadini: perché il centrodestra è più capace di compattezza elettorale, pur essendo all’interno più diviso del centrosinistra? Pare che solo grazie ai sondaggi sfavorevoli il centrosinistra si sia accorto dell’errore di non trovare l’unità nel presentarsi all’elettorato. E adesso, con imperdonabile ritardo e comunque diviso, tenta di correre ai ripari mettendo in guardia i cittadini sulle complicate conseguenze (nazionali, europee e internazionali) di una vittoria della destra. Il dubbio però è che non di disattenzione si sia trattato bensì dell’esigenza del M5S e della lista Calenda-Renzi, di misurare l’effettivo loro peso politico. Come dire che, per questi due «poli», il proprio interesse prevale su quello del Paese. Ci voleva tanto a capire che, con questa legge elettorale, nell’interesse del Paese occorreva l’unità del centrosinistra per fronteggiare l’unità del centrodestra. Solo così ci sarebbe stato un chiaro responso delle urne. Senza dubbio la divisione del centrosinistra ha agevolato il centrodestra nei sondaggi. Vedremo come finirà. Ma certo, per qualche punto in più nei sondaggi di M5S e di Calenda-Renzi, si rischia di consegnare il governo dell’Italia alla destra in un momento di grave crisi. Con effetti imprevedibili: non tanto per il pericolo fascista, francamente improbabile, quanto per due semplici ragioni. La prima: le divisioni tra i partiti della destra, ora tenute in ombra pur di vincere le elezioni, sono assai profonde e presto verranno alla luce facendo riprecipitare il Paese in una nuova e più acuta crisi politica. Riusciranno Meloni e Salvini a ricucire, nel governo, le loro opposte idee su scostamenti di bilancio, flat tax, pensioni a 41 anni di contributi, ridiscussione nell’Ue del Pnrr, sanzioni alla Russia e aiuti (anche di armi) all’Ucraina ecc.? Tante onerose promesse senza dire dove prendono i soldi? Taglieranno sanità e servizi sociali? Su questi problemi non piccoli Salvini accelera e Meloni frena. Chi l’avrà vinta? E a quale prezzo per i cittadini? La seconda ragione è più inquietante. Ove mai la destra avesse una maggioranza autosufficiente per stravolgere l’assetto istituzionale della Costituzione, è evidente che il compromesso tra Meloni e Salvini sarebbe il «presidenzialismo» di Meloni, devastante quanto l’«autonomia differenziata» di Salvini. Due progetti in grado di dividere la «Repubblica una e indivisibile» e di abbandonare il Mezzogiorno al suo destino, ai suoi ritardi, alle sue contraddizioni e carenze. Non è un caso che, soprattutto a destra, del Mezzogiorno nessuno parla. L’hanno notato negli ultimi giorni sul nostro giornale il direttore Enzo d’Errico e Paolo Macry. Del resto non è nel costume della destra intrattenersi sull’eguaglianza sostanziale e sulla giustizia sociale, seriamente compromesse dall’autonomia differenziata. Nei programmi elettorali solo vaghi e generici accenni, quando ci sono. L’intoccabilità del «reddito di cittadinanza» — grande risorsa del Mezzogiorno — per ora ha solo fatto guadagnare al M5S qualche punto nei sondaggi. Gli altri partiti vogliono riformarlo, non abolirlo: i poveri vanno aiutati! Nessuno però sa cosa davvero pensa Giorgia Meloni sul destino del Sud: ha solo detto che l’autonomia differenziata non lederà l’unità del Paese. Può bastare? Clamoroso poi il silenzio di Salvini: non ammetterà mai che chiede voti al Sud per agevolare il Nord, ma è così. Del «grande trasformatore» della Lega Nord in «Lega nazionale» si ricorda soltanto la proposta d’istituire — beninteso a Milano! — il «Ministero dell’innovazione, digitalizzazione e intelligenza artificiale». Fosche nubi s’addensano sul destino del nostro Mezzogiorno! 11 settembre 2022 | 08:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,