Francesco Guicciardini, il Cinquecento nelle sue lettere

Francesco Guicciardini, il Cinquecento nelle sue lettere

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di PAOLO DI STEFANO

La storia d’Italia e d’Europa in presa diretta: la politica, il rapporto con i Papi Leone X e Clemente VII, l’amicizia con Machiavelli. Paola Moreno ha selezionato per Einaudi le epistole del nobile fiorentino: così viveva e comunicava l’autore del «particulare»

Che bella sorpresa le lettere di Francesco Guicciardini, non solo per le turbolenze storiche che raccontano dall’interno, ma anche per lo stile: precisione del lessico e perfetta adesione della sintassi al ragionamento. Si direbbe che la prima regola sia sempre per lui, anche nello scrivere, la «discrezione»: termine con cui definì la necessità di distinguere e di adottare ogni volta una diversa strategia per comprendere i casi della vita e le cose del mondo. È evidente, leggendo le lettere, come la «discrezione», per Guicciardini, sia non solo una legge dello storico che interpreta gli eventi ma una necessità dello scrittore nello scegliere, ogni volta, lo stile più adatto al contesto «particulare».

Giurista, avvocato, diplomatico, funzionario, politico, uomo d’azione, oltre che storico, filosofo e scrittore, diversamente dal «popolano» Machiavelli, che fu suo amico, Guicciardini proveniva da una famiglia aristocratica fiorentina fedele ai Medici, il che gli permise di trattare con i potenti del suo tempo, principi e papi compresi, senza alcuna soggezione. Allevato «santamente» da un padre seguace di Savonarola, studente di giurisprudenza, ben presto avviato alla carriera politica, ambasciatore in Spagna, governatore di Modena e Reggio per conto di Papa Leone X, capo dell’esercito pontificio alla conquista di Parma nel 1522, consigliere di Clemente VII e ideatore della Lega di Cognac che schiera gli Stati italiani e la Francia contro Carlo V di Spagna, luogotenente dell’esercito papale nelle campagne lombarde. Nel 1527 Guicciardini fa esperienza del fallimento più amaro, quello dovuto al Sacco di Roma con la conseguente sconfitta della politica antimperiale del Papa, da Guicciardini fortemente sostenuta.

Per smaltire l’amarezza e l’accusa di malversazione, si ritira nella villa di Finocchieto, nei pressi di Firenze, dove constata come si possa precipitare dalle stelle alle stalle (sempre dorate), ovvero «da uno estremo eccessivo di onori, di riputazione, di faccende grandissime (…) in un altro estremo di uno vivere ozioso, abbietto, privatissimo, sanza dignità, sanza faccende, inferiore nella sua città a ogni piccolo cittadino». L’ultimo suo decennio è un periodo di cadute e di riprese: la fuga a Roma, presso il Papa, imposta dai repubblicani fiorentini più accesi giunti al potere; il ritorno in città e il governo di Bologna (sempre su incarico del pontefice), le diverse fortune vissute sempre al seguito (e in difesa) dei Medici. Infine, con l’arrivo del duca Cosimo, Guicciardini viene riempito di onori al preciso scopo di essere esautorato: infatti nel 1537, cinquantaquattrenne, si allontana dalla vita attiva per ritirarsi, questa volta per sempre, nella Villa di Santa Margherita in Montici, vicino ad Arcetri, e dedicarsi alla stesura della monumentale Storia d’Italia.

La vita attiva, tanto gloriosa quanto travagliata, è presente nelle lettere accanto alle vicende private, ai rapporti familiari e di amicizia: due orizzonti, quello pubblico e quello domestico, che sono strettamente connessi, specie quando Guicciardini, operando lontano (in Spagna), avverte l’esigenza di avere informazioni sulla sua città. L’eccezionalità della corrispondenza sta nella varietà, nello stile e nel numero, come ci informa Paola Moreno nell’introduzione alla raccolta che ha curato per Einaudi (Lettere). Una raccolta necessariamente selettiva (intesa come «vita attraverso le lettere») se è vero che il corpus completo delle epistole scritte e ricevute dal Guicciardini consta finora di oltre cinquemila documenti che occupano l’intera vita dell’autore, dall’autunno 1499 fino al 20 aprile 1540, pochi giorni prima della morte: «Si tratta di un momento importantissimo della storia d’Italia e d’Europa, che le lettere del fiorentino riflettono fedelmente, in presa diretta, per così dire, sia che Guicciardini si ponga come osservatore disincantato, sia che invece egli agisca e rifletta sul presente, come protagonista e pensatore politico».

L’aspetto più interessante per lo studioso è il presentarsi delle lettere come una sorta di palestra linguistica e concettuale, un laboratorio a cui Guicciardini attinge di continuo in funzione delle sue opere storiografiche, dei discorsi politici e anche dei Ricordi, raccolta di massime ad uso privato, la cui stesura occupò diversi decenni, benché non fosse destinata alla pubblicazione. Moreno sceglie, per estrema chiarezza, di disporre la sua selezionatissima antologia di lettere (una cinquantina) in ordine tematico-cronologico aprendo con gli anni della formazione: in latino la corrispondenza anche scherzosa con il giovane compagno di studi Alessio Lapaccini. Si prosegue seguendo le varie funzioni professionali svolte dal Guicciardini: l’ambasciatore, il mercante, il governatore, il consigliere del Papa, il riformatore, lo storiografo…

In una lettera inviata da Valladolid nel 1513 al fratello Luigi, compare il riferimento alle nuove rotte oceaniche aperte da Vasco da Gama, da cui consegue la prospettiva di alcune opportunità commerciali per la propria famiglia insieme con la preoccupazione per lo strapotere del sovrano spagnolo (un nuovo Carlo Magno) sempre più ricco grazie all’oro importato dalle Indie occidentali. È la stessa lettera che contiene una serie di forestierismi relativi alle merci giunte dall’Oriente, a cominciare dalle spezie, la noce moscata, il macis, il pepe, il cubebe, i chiodi di garofano («gherofani»), il rabarbaro («riobarbero»), la cannella, lo zenzero («gengovi»), oltre ai tessuti (la «seta fine»), la lacca («lachera buona»), il «verzino», il «legno aloè», lo «stagno più fine di quel di Londra» eccetera. Più in là troviamo l’avvocato alle prese con un presunto assassino: è il giovane conte modenese Uguccione che, sorpreso in un incontro adulterino con una nobildonna locale, in fuga con il servo ferisce a morte il marito di lei appostato con il suocero. La sorpresa è che, trattandosi di delicata questione ereditaria relativa ai potentati locali, la lettera è diretta al Papa e lascia intravedere un tentativo di «composizione» alquanto discutibile.

Si tratta sempre, per Guicciardini, di ricucire strappi, di mettere pezze, di rivendicare l’importanza del proprio status e ruolo di mediatore. La corrispondenza con i Medici tratta temi più istituzionali talvolta con toni di confidenza: la riscossione delle entrate a Modena, il contesto deplorevole in cui deve gestire i parmigiani «strachi» e «inviliti totalmente», la frustrazione per la mancanza di mezzi economici, la generale «conditione de’ tempi» e il trovarsi «nel più pazo laberintho» della sua carriera, avendo a che fare con «gente passionata e sanza ragione» (nella Rocca parmense di San Secondo). E poi: la necessità di agire sempre con «dextreza» e «prudentia», i suggerimenti di alleanze strategiche per rivolvere questioni locali e internazionali, consigli e appelli rivolti al Papa e ai suoi collaboratori.

Ha un rilievo notevole il carteggio di messer Francesco con Machiavelli, che Paola Moreno definisce «una delle pagine più belle dell’epistolografia italiana». Nei mesi in cui Guicciardini condusse la guerra per conto della Lega, il rapporto tra i due si intensificò grazie a una missione futile affidata a Machiavelli dalle autorità fiorentine presso i frati minori di Carpi, zona controllata dall’amico: la confidenza tra i due fu tale che dopo aver ricevuto la lettera in cui Francesco esprimeva la sua meraviglia per quell’incombenza vana, Niccolò gli scrisse: «Io ero in sul cesso quando arrivò il vostro messo et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo…». Innestando un gioco scherzoso e anche un po’ scurrile, compreso un «Cazzus!» sfuggito dalla penna del segretario. In altri momenti lo scambio si estende dal piano familiare alle riflessioni filosofico-politiche e ai confronti sui rispettivi testi.

È nella ricca sezione dei commenti che Moreno illustra le singole ragioni storiche e gli agganci: per esempio sulla drammatica lettera del dicembre 1529 ai magistrati fiorentini in cui Guicciardini, accusato di tradimento e ribellione contro lo Stato, si appresta a un doloroso esilio. E la curatrice ci tiene a segnalare quanto questa seconda stesura si presenti «quasi convulsa», carica com’è di cancellature e ripensamenti. Siamo nei pressi del 1534, l’anno in cui si chiude la Storia d’Italia, ricostruzione delle vicende non solo italiane ma anche europee avviate in quel 1494 che segna la fine dell’età dell’oro e l’inizio della tragica «perturbazione» delle armi…

Il volume si conclude con le epistole a familiari, amici e confidenti, dove il tono grave indulge di rado alle affettuosità, come quando dalla Spagna messer Francesco accenna alla nascita della prima figlia, oppure quando evoca la morte della cognata o il problema di maritare degnamente le figlie, per cui chiede consiglio al Machiavelli. Alla moglie Maria, Guicciardini dedica «pudiche parole» in una lettera del 1524 al parente Iacopo Salviati in cui il governatore della Romagna confessa di non voler più lasciare sola la consorte, afflitta da «una mala dispositione di homori malinconici che ha facta per li dispiaceri delli anni passati». In un’altra missiva, un anno dopo, rinuncia a trasferirsi a Roma «per rispecto della mogle», in preda a «humori maninconichi, che è stata per lasciarvi la vita, come sa tucto Firenze». Quel che sa tutta Firenze, in realtà, è che Maria è afflitta dal non avere avuto figli maschi. Guicciardini lo scrive in una lettera, ma poi decide di cancellarlo.

29 maggio 2022 (modifica il 29 maggio 2022 | 20:18)

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