di Marco Scarponi, segretario generale della Fondazione Michele Scarponi Onlus
Il segretario della Fondazione dedicata al ciclista investito nel 2017: «Come cittadini abbiamo accettato il fatto che la strada debba essere veloce e pericolosa»
Egregio Direttore, le scrivo a cinque anni di distanza dalla prima volta, ma avrei potuto farlo dieci volte al giorno in tutto questo tempo (tante sono le vittime sulla strada quotidianamente in Italia), perché vorrei che gli ultimi episodi di violenza stradale non vengano archiviati come normali eventi di cronaca. Non più. Il problema è immenso e credo che sia arrivato il momento di mettere in atto tutte quelle forze, anche mediatiche, per risolvere la mancanza di sicurezza sulle strade andando in fondo, dritti alle vere cause strutturali del sistema-mobilità del nostro Paese. Vede, non basterà condannare un automobilista per fare giustizia, perché Francesco, Michele e tutte le vittime di questa orribile violenza, meritano una risposta più grande. Una reazione culturale costante finalizzata a consegnare ai nostri figli e ad ogni persona una vera strada, sicura e di pace, una volta per tutte.
Un familiare di una vittima della violenza stradale è esso stesso una vittima, costretto a vivere il resto della propria vita in una condizione che non ha scelto. Paola, Luca e Daria, rispettivamente i genitori e la sorella di Francesco Valdiserri, ucciso a 18 anni dalla violenza stradale a Roma, non hanno scelto di vivere quel «vuoto» di cui parla Giuseppe Di Piazza sul Corriere della Sera l’indomani della tragedia. A scegliere è stata Chiara, la ragazza di 23 anni alla guida dell’auto. Ma perché ha scelto di guidare sotto effetto di alcol e ad alta velocità nel centro di Roma? Non sa ancora, nel 2022, che mettersi alla guida dopo aver bevuto alcol è estremamente pericoloso per sé e per gli altri? A lei è mai stato detto che la velocità uccide? Lei in realtà sa tutto questo, ma non lo ha mai ritenuto un valore, come è oscuro il valore di chi costruisce autostrade urbane e di chi non investe per garantire maggiori controlli sulle strade. Eppure non ci sono proteste per questo, al massimo qualche post e qualche articolo. Come cittadini italiani abbiamo accettato il fatto che la strada debba essere veloce e pericolosa, territorio di auto sempre più grandi, isolate dal mondo di fuori e potenti, dove il più fragile, la persona a piedi e in bici, non è il benvenuto e deve smetterla di andarsela a cercare. Dove i bambini non possono più sbagliare. Perché la libertà e l’autonomia sono solo e soltanto incarnati nell’auto: così ci dice il bombardamento pubblicitario dell’automotive, proveniente da tutti i canali possibili, di cui siamo succubi oltre 300 volte al giorno.
Il fatto che qualcuno, in realtà tantissimi, si metta alla guida di un’auto-arma sotto effetto di alcol è normale, è solo un effetto collaterale delle nostre autonomia e libertà motorizzate. Non vogliamo alternative all’auto, alla velocità e alla comodità che ci propone, quindi ci sta guidare col cellulare in mano e ad alta velocità. Ci sta parcheggiare in doppia o tripla fila sui marciapiedi e sulle ciclabili. Ci sta scarrozzare i nostri figli da un posto all’altro senza mai fargli mettere i piedi a terra. Ci sta dimenticarsi di frenare la vettura e lasciare che piombi addosso ai bambini di una scuola. Se le persone a piedi vengono investite è colpa loro, per la mentalità comune, non si può cambiare. Questa è la migliore strada possibile e la morte violenta degli altri è il tributo da pagare al progresso motoristico, per la mia e la tua libertà, per la mia e la tua autonomia, vere o presunte che siano. A un monopattino o a una bici elettrica blocchiamo la velocità perché pericolosi e soprattutto perché possono mettere in discussione quelle libertà e autonomia che devono restare chiuse dentro l’automobile, ben protette e soprattutto senza limitatori di velocità.
Ma qual è l’arma con cui uccidiamo e inquiniamo sulla strada, sui marciapiedi, sulle ciclabili, davanti e dentro le scuole? Mentre si elogiano gli ultracentenari che rinnovano la patente come fossero degli eroi nazionali e spuntano in ogni città d’Italia comitati contro gli autovelox con politici di ogni partito in testa (Vittorio Sgarbi ha promesso, durante la recente campagna elettorale, che avrebbe spento gli autovelox per nove mesi se fosse stato eletto) bambini, ragazzi e ragazze, uomini, donne e anziani vengono ammazzati senza tregua e molti restano feriti gravemente. Ma l’unica protesta che si alza è la rassegnazione totale. Che cos’è per noi la vita sulla strada?
Prima dell’omicidio di mio fratello Michele, campione di ciclismo e padre di due bambini, ucciso mentre era in sella alla propria bici, dal compaesano Giuseppe Giacconi che alla guida di un furgone non gli dava la precedenza svoltando a sinistra, anche per me non esistevano le morti sulla strada. Sebbene persone di mia conoscenza avessero perso la vita a seguito di scontri stradali e, una mattina sì e l’altra pure, in prima pagina dei giornali vedevo auto accartocciate accanto a corpi coperti sotto bianche lenzuola, continuavo a bere tranquillo il mio cappuccino al bar, a guidare oltre i limiti di velocità consentita, a cercare parcheggio in centro, a mandare qualche messaggio al cellulare, a salire in auto dopo qualche drink di troppo. Poi la mattina del 22 aprile 2017, sotto quel lenzuolo bianco, ho scoperto il volto di mio fratello senza fiato, con gli occhi chiusi per sempre. Mi sono sentito complice, colpevole, anche se non ero stato io a scegliere, quel sabato mattina, di svoltare a sinistra senza guardare. Mi sono ritrovato in quel nulla di cui scrive la mamma di Francesco ed è cambiato tutto, per sempre. Poco dopo è nata la Fondazione Michele Scarponi Onlus, una forte presa di coscienza sulla violenza stradale, prima causa di morte per le persone sotto i cinquant’anni in questo Paese. È nata per tracciare un percorso in quel vuoto dove saremo sempre sprofondati ma, con quel buonismo tipico da povere vittime sfortunate che ci fa dire «è capitato a noi, ma non capiti più a nessuno» (cit. Giuseppe Di Piazza), proviamo a dare le risposte che tutti meritano, vittime e no. Noi, con tutto il futuro nel nulla, vogliamo vivere e cambiare la strada in nome di tutti i nostri fratelli e figli ammazzati, ma gli altri dove sono?
Dove sono i politici che non si azzardano a parlare di sicurezza stradale né di aumentare i controlli, che non pensano di dare il via alle città a 30 km/h e a tutte le necessarie modifiche per una strada a misura di persona, senza più vittime? I magistrati, gli avvocati, le forze di polizia, i grandi architetti, gli urbanisti e i giornalisti da che parte stanno? Quando si solleverà quell’urlo deciso di protesta, di indignazione, una vera, continua e strutturata campagna di sensibilizzazione, una decisa presa di posizione culturale che alzi il volume e la qualità della proposta intorno ai temi della sicurezza stradale e della mobilità sostenibile, capace di smuovere le coscienze definitivamente e avviare questo Paese verso la pace stradale? Ecco, io sto nel vuoto, e da lì tento di lanciare fuori al vento dei granelli di luce. L’uscita per me non esiste, Michele non tornerà più, e non basterà nemmeno sapere quante vite stiamo salvando con le attività della Fondazione Scarponi per dare un senso alla sua morte. Oggi so dov’ero prima e so che l’impegno per una strada senza più vittime e una nuova mobilità è una reazione a cui mi dedico senza sosta per fare la mia parte, quella che non ho fatto quando dovevo. Ma il problema per me ora non è solo il mio vuoto, bensì la superficialità e l’indifferenza, vale a dire il nulla degli altri.
11 novembre 2022 (modifica il 11 novembre 2022 | 19:05)
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, 2022-11-11 18:07:00, Il segretario della Fondazione dedicata al ciclista investito nel 2017: «Come cittadini abbiamo accettato il fatto che la strada debba essere veloce e pericolosa», Marco Scarponi, segretario generale della Fondazione Michele Scarponi Onlus