Ce li siamo immaginati armi e bagagli, con i quattro figli sottobraccio ancora in pigiama pur di salvarli da un sistema che ne mortifica il benessere, ma nessuno ha stentato a credere alla veridicità del loro racconto. Diciamolo: ciò che hanno scritto è purtroppo, in molti casi, esattamente quello che ci si aspetta di trovare, l’eccezione sarebbe il contrario (non a caso per descriverla si usano espressioni come ‘docente o dirigente illuminato’, la normalità sono le tenebre, evidentemente). Tra i commenti più seguiti, quello su Huffington Post a firma di Mila Spicola, docente ed esperta di politiche educative con una lunga militanza nel PD, oggi attiva in diversi progetti di empowerment per le ragazze.
Spicola, il suo sfogo, che abbraccia e amplifica quello di questi giovani genitori finlandesi, non allude tanto agli aspetti organizzativi della vita scolastica (per quanto la presenza o meno di pause didattiche o di giardini bene attrezzati potrebbe farvi riferimento), ma più a quelli antropologici, “la scuola del malessere, dell’espiazione” scrive. Cosa ne è stato delle Maria Montessori, dei Mario Lodi, dei tanti movimenti di cooperazione educativa nati in Italia ma conosciuti e studiati in tutto il mondo? Perché proprio qui da noi non sono diventati sistema?
È un mistero. Voglio dire, in modo carsico le loro idee e le loro pratiche vivono in molte belle esperienze in alcune scuole, o reti di scuole, o in associazioni di docenti, ma, a livello di sistema, di scelte e indirizzi ministeriali e/o organizzativi mi pare che siano largamente messi da parte. Fa bene a fare riferimento a grandi pedagogisti come Montessori o Lodi. Dobbiamo ricordarci che le pratiche finlandesi che a molti sembrano “lontanissime dai nostri sistemi e paesi” in realtà discendono da quelle esperienze e quelle riflessioni. Che comunque hanno oggi base scientifica e conferme empiriche. Nel caso specifico, la questione non è il gioco in sé o l’avere momenti di gioco o rilassatezza alternati ai momenti di lezione e impegno scolastico, ma una riflessione più ampia: in ambienti positivi e gioiosi il cervello è meglio predisposto all’apprendimento, mentre paura, ansia, relazioni negative è come se abbassassero la saracinesca agli apprendimenti. Sembrano riflessioni generalmente condivisibili, in realtà sono molto di più, hanno conferme scientifiche. Ci aiutano ad assumere decisioni didattiche in vista di un migliore apprendimento dei discenti e di una crescita armoniosa della persona, del cittadino, educativamente efficace. Che poi è il fine della scuola.
Del sistema finlandese elogia lo stretto contatto tra équipe scolastiche e dipartimenti universitari di didattica e pedagogia. Qualcosa del genere accade da noi solo nei corsi di Scienze della formazione primaria, un modello che continua però a risultare di difficile esportazione verso il segmento della secondaria. Quali esperienze e tentativi di riforma le sono sembrati più significativi negli ultimi anni?
Grazie per la domanda, mi dà l’occasione di fare riferimento alla riforma della formazione e selezione dei docenti della secondaria approvata sotto il governo Gentiloni, nel dicastero Fedeli, comunemente nota come FIT. Quel modello cercava di risolvere più problemi: intanto l’eliminazione del precariato e delle Gae, attraverso il “posizionamento” del concorso per l’insegnamento prima del percorso di specializzazione, su modello delle specializzazioni mediche. I posti venivano banditi su base provinciale, dunque si eliminavano anche i problemi della mobilità e della continuità didattica, due diritti sacrosanti, del docente e del discente, oggi in conflitto. L’altro tema, più vicino a ciò di cui stiamo trattando, era quello di un processo di formazione iniziale completo, nel merito, cioè con le conoscenze e le competenze utili a diventare docente, ma soprattutto nel metodo, perché per la prima volta la formazione del docente, insieme teorica e pratica, era seguita “in simultanea” da commissioni composte sia da docenti universitari che da dirigenti e tutor, ovvero colleghi docenti. Cosa comporta un sistema simile? Che i due mondi non solo si parlino, ma lavorino insieme nella formazione dei docenti e sui temi educativi e didattici. Esattamente come avviene in Finlandia ma in una declinazione nostra. Con la ricchezza disciplinare propria del nostro sistema. Sarebbe stata una piccola rivoluzione. Quel sistema è stato messo da parte da Bussetti e in pochi lo hanno difeso, perché in pochi ne hanno compreso i vantaggi soprattutto per i docenti in formazione, non solo per la scuola. Percorso certo, numeri certi, alla fine del FIT si entrava sicuramente di ruolo e, soprattutto, si veniva pagati. Oggi i 60 crediti saranno a carico dei futuri docenti. Chi si lamentava che quel pagamento fosse basso non ha fatto bene i conti. Dal secondo anno il docente avrebbe sommato i soldi del FIT a quelli delle supplenze. Dunque oggi un docente in formazione “perde” sia i soldi per il costo dei 60 cfu sia quelli che avrebbe avuto da FIT + supplenze. Secondo me questo sistema si è voluto liquidare frettolosamente per un motivo solo: costava allo Stato circa 300 milioni di euro che quel governo ha destinato ad altro.
Ci sono poi cose che altrettanto frettolosamente – e a volte inspiegabilmente – invadono la vita scolastica in modo molto capillare: forse questi genitori non ne hanno avuto il tempo, ma pensi se avessero capito il funzionamento di certe app dei registri elettronici, che aggiornano le famiglie sulla ‘produttività’ dei figli in termini di media aritmetica dei voti? Glielo domando perché ultimamente ha scritto anche su questo.
Le mie riflessioni nascono da un confronto con le colleghe Federica Patti e Ilaria Maggi durante gli Stati Generali della Scuola di Matera. Insieme commentavamo i dati che segnalano la crescita tra gli adolescenti di ansia e patologie da dipendenza derivanti dalle notifiche ossessive della app del RE. Alcuni genitori hanno scritto una lettera aperta in merito. Non si dice di bandire il registro elettronico, ma di curarne l’uso, le modalità e le finalità. Ogni collegio e ogni scuola possono decidere cosa, come e quanto inviare via app. Una valutazione sommativa in numero dice poco sull’andamento scolastico e arriva a confondere la valutazione disciplinare con una valutazione della persona. Sappiamo invece come una valutazione descrittiva, formativa, abbia degli effetti migliori sia sui rendimenti che sulla psiche dei discenti. Torniamo a sopra: insegnare e apprendere sono attività che avvengono in situazione e dipendono dalle relazioni e dal clima di quelle relazioni, ma soprattutto bisogna ricordare sempre che il rispetto della persona, l’empatia, la chiarezza formativa della valutazione sono tutti fattori che incidono fortemente. Questo non “lo dice la Finlandia”, lo dice l’opportunità di crescere e formare adulti sereni con relazioni serene.
Questa famiglia si è trovata a Siracusa, fosse capitata a Ferrara sarebbe andata diversamente secondo lei? L’ultimo rapporto Svimez ci mette di fronte a un’Italia a due velocità, al Sud per esempio il 79 per cento dei bambini della primaria non accede al servizio mensa. Opportunità diverse in termini di strutture e servizi non determinano anche climi relazionali e di apprendimento diversi?
Su questo argomento no, non lo credo: sia i processi di formazione e selezione dei docenti, sia di organizzazione e gestione, sia di indirizzo sono nazionali. E comunque, questa profonda convinzione che la sofferenza e l’espiazione siano strumenti educativi porta a confondere il malessere con l’impegno ed è ahimè introiettata nel paese su larga scala.
In questi giorni si discute molto di autonomia differenziata e delle insidie che potrebbero esserci proprio su scuola e sanità. Lei che è così favorevole al modello finlandese – caratterizzato, come sappiamo, da un forte decentramento – vede forse qualche opportunità?
La Finlandia ha un decentramento che corrisponde alla nostra autonomia scolastica, con maggiore autonomia per ogni singola cosa, ma ha una fortissima coesione nazionale in merito all’indirizzo educativo e all’impostazione sottesa rispetto a quei valori di riferimento; sono profondamente consapevoli che il modello sociale di un paese discende e produce un modello scolastico. Per cui è un’autonomia “non pericolosa”.
Da noi questa unità nazionale sui valori e sulla visione che vogliamo trasmettere con la scuola traballa, perché l’impostazione educativa, la missione, la direzione della scuola sono confuse e contraddittorie e mutano di governo in governo, senza che vi sia un dibattito con la scuola, più che sulla scuola. Finisce che abbiamo una forte attività di tipo amministrativo e burocratico, i famosi adempimenti, che rischiano di riempire tutto. E credo che si annidino e predominino perché c’è un vuoto di senso e di visione, per carenza di dibattito comune dentro la scuola. Dobbiamo trovare il nostro modello, dobbiamo ragionare sulla nostra idea di società e trasferire quell’idea a un modello scolastico corrispondente. La bussola l’abbiamo, è la Costituzione, direi persino più nei primi dieci articoli che nel 33 e 34 che citiamo sempre. Rimuovere gli ostacoli, quando invece ahimè la scuola li ripropone e conserva (pensiamo alla difformità di offerta di tempo pieno lungo il territorio o anche all’appalto strutturale del recupero scolastico fuori della scuola, alle lezioni private o al terzo settore, quando dovrebbe essere svolto dentro la scuola, con la scuola e in itinere, pensiamo al modello valutativo ahimè ancora oggi zoppicante in alcuni punti), fornire le competenze di base che sono strumenti preziosi per la persona e per il cittadino, dunque considerarle non in senso utilitaristico ma in senso formativo, comprese quelle digitali e finanziarie, oggi discrezionalmente fornite non si sa come, quando e da chi, fornire ai docenti la serenità per svolgere un mestiere così importante, perché tutto quello di cui abbiamo parlato fino ad adesso si schianta sulle spalle dei docenti, quando invece, come ho cercato di dire, dovrebbe essere esito di visione, impostazione e organizzazione di sistema, di paese. In tutto questo non c’è spazio per coltivare ipotesi di differenziazioni autonomiste che poi, lo sappiamo benissimo, nella sostanza da noi si traducono in finanziamenti differenziati a scapito della tassazione e della coesione nazionale. E’ un’idea irricevibile.