La Germania esce dai Mondiali: ecco perché l’eliminazione pesa così tanto

La Germania esce dai Mondiali: ecco perché l’eliminazione pesa così tanto

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di Paolo Valentino, nostro corrispondente da Berlino

È l’ennesimo segnale di un Paese che sempre più fatica a riconoscersi, di fronte al crollo di molte delle sue rassicuranti e a volte arroganti certezze. L’attacco di Der Spiegel: «Sente qualcosa Olaf Scholz? Perché no?»

Aus! Raus! Heimflug! Fine, fuori, ritorno a casa. La nazionale tedesca esce dal Mondiale qatariota e la Germania si ritrova preda di uno psicodramma nazionale. È una sconfitta umiliante per una delle squadre di maggior successo nella storia del torneo, ad appena otto anni dal trionfo del 2014 in Brasile. Ma è anche l’ennesimo segnale di un Paese che sempre più fatica a riconoscersi, di fronte al crollo di molte delle sue rassicuranti e a volte arroganti certezze. «Wer bist du, Deutschland?», chi sei tu, Germania, si chiede Der Spiegel in un editoriale fatto di 25 domande, che tra il serio e la celia affondano il coltello nelle ferite di una nazione smarrita: «Sente qualcosa Olaf Scholz? Perché no? Se grazie a Dio non possiamo più parlare del Qatar, possiamo finalmente di nuovo concentrarci sulle cose più allegre (ironico ndr) della vita, come guerra, inflazione e cambiamenti climatici? Possediamo quella che il filosofo Sloterdijk chiama l’arte della sconfitta elegante? Quanti editoriali sul declino dell’intero Paese, le sue idee e istituzioni dovremo sopportare».

È molto più dello sport nazionale, il calcio in Germania. Il ruolo e le vittorie della Mannschaft hanno scandito la vicenda della Repubblica Federale tedesca, dandole orgoglio nazionale e immaginario collettivo. Quando chiesi a Joachim Fest, uno dei maggiori storici tedeschi del Novecento, chi avesse forgiato l’identità tedesca nel Dopoguerra, mi fece tre nomi: Konrad Adenauer, il cancelliere della Westbindung, l’ancoraggio a Occidente; Ludwig Ehrard, il padre dell’economia sociale di mercato, e con mia grande sorpresa, Fritz Walter, il capitano della nazionale che vinse la Coppa Rimet, come si chiamavano allora i mondiali, nel 1954 a Berna. «Quella fu la prima volta dopo la catastrofe del nazismo e l’Ora Zero, in cui i tedeschi tornarono a sventolare una bandiera senza più vergognarsi», mi spiegò Fest. Da allora, la Mannschaft è stata oggetto di culto, la nazionale come ambasciatrice del carattere e dei successi tedeschi, con tutti i cancellieri o quasi pronti a usarne la popolarità a proprio vantaggio, il calcio come prosecuzione della politica con altri mezzi. Da Ludwig Erhard a Willy Brandt, da Helmut Schmidt (ricordate il suo volto di pietra accanto a un esultante Sandro Pertini sulle tribune del Bernabeu durante la finale Italia-Germania del 1982?) a Helmut Kohl, fino a Gerhard Schröder e soprattutto Angela Merkel, che cercava di non mancare mai alle partite apicali e, quando non poteva, interrompeva perfino i G7 e i G20 per seguire in televisione i suoi Jungs. Celebri erano le sue visite, in blazer verde scaramantico, dove conversava rilassata con i giocatori, incurante di petti ignudi e mutande. Nella nazionale tedesca, l’eterna cancelliera vedeva anche una metafora della vita e una lezione per la politica.

Il gioco di squadra come regola del successo, nel calcio come nel governo: «Nel calcio e in politica – amava dire – bisogna spendersi completamente e sfruttare le occasioni, sapendo che il rischio verrà premiato». Ma Angela Merkel considerava la Mannschaft anche il paradigma della riuscita integrazione, autentico spaccato della società tedesca, dove convivono Müller e Sanè, Gundogan e Füllkrug. Il dramma del Qatar segna la fine delle illusioni. Per la seconda volta consecutiva la Germania viene eliminata nella fase a gironi. «Uscita meritata – scrive n-tv – poiché ambizioni e realtà non coincidono più». La lista delle cose che non funzionano più è lunga. In primo luogo, una squadra vecchia, la media d’età era la più alta di tutte le nazionali tedesche dal 2002. E poi una preoccupante scarsezza di talenti: «Non sono molti i top players tedeschi nati tra il 1991 e il 2000», nota Simon Kuper, scrittore e autorità assoluta fra i commentatori di calcio. Altri analisti parlano di arroganza, senso (ingiustificato) di superiorità, scarsa capacità del commissario tecnico Hansi Flick di trasmettere alla squadra le giuste motivazioni. Ma ben oltre il calcio, l’umiliazione subita nel Golfo sembra fare rima con tutte le altre crisi, piccole e grandi, che rendono un po’ più difficile oggi riconoscere la Germania. Un Paese che con la guerra in Ucraina ha visto crollare il proprio modello di sviluppo ventennale, fondato sul gas a basso prezzo dalla Russia e sul vasto campo del mercato cinese, e ora fatica a reinventarsene uno nuovo. Che si è risvegliato dall’opulento e confortevole letargo dei sedici anni di Angela Merkel, scoprendosi pieno di ritardi e arretratezze, dai trasporti, agli alloggi, alla sanità. E che per la prima volta nel Dopoguerra sperimenta il brivido caldo dell’instabilità politica, con un governo formato da tre partiti in continua tensione fra di loro. In questo senso, parafrasando la domanda di Der Spiegel, è lecito chiedersi: «Wo bist du, Deutschland?», dove sei tu, Germania.

2 dicembre 2022 (modifica il 3 dicembre 2022 | 09:41)

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, 2022-12-03 08:42:00, È l’ennesimo segnale di un Paese che sempre più fatica a riconoscersi, di fronte al crollo di molte delle sue rassicuranti e a volte arroganti certezze. L’attacco di Der Spiegel: «Sente qualcosa Olaf Scholz? Perché no?», Paolo Valentino, nostro corrispondente da Berlino

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